Tex Giulia, macchine spente e tutti a casa

C’è chi, in quello stabilimento, ha passato buona parte della sua vita. Sudando, impegnandosi, credendoci. Lavorare per la “Tex Giulia” era un onore perché significava contribuire alla crescita di uno dei fiori all’occhiello dell’industria goriziana, isontina e regionale. C’era anche un pizzico d’orgoglio nel varcare, ogni mattina, quel cancello. L’azienda era come una casa e il gruppo di colleghi che vi lavoravano era diventato una sorta di seconda famiglia.
Tutti i verbi sono declinati al passato perché la “Tex Giulia” ha, di fatto, cessato la produzione. A nulla sono valsi l’impegno dei lavoratori e dei sindacati a invertire una rotta che è sembrata segnata sin dall’inizio. Quando la proprietà spiegò, molto chiaramente, che contro la concorrenza dei Paesi emergenti non si poteva fare nulla («Dalla Turchia, arriva un cotone che costa il 30, anche 40 per cento in meno. Nemmeno se i dipendenti iniziassero a lavorare gratis, non si riuscirebbe a produrre a un prezzo inferiore dei temibili competitor»).
«La fabbrica - annuncia, senza giri di parole, il sindacalista della Filctem-Cgil, Gianpaolo Giuliano - ormai è chiusa. Con il 30 aprile, tutti i dipendenti rimasti in servizio (venti complessivamente) saranno ufficialmente disoccupati. La produzione è terminata la settimana scorsa. Cinque dipendenti hanno finito la loro esperienza lavorativa alla “Tex Giulia” il 28 febbraio scorso, i restanti 15 vivranno il 30 aprile come ultimo giorno di lavoro. Il loro destino? Otterranno la Naspi». La “Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego” è in vigore da maggio 2015. Chi perde il lavoro e ha almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni ha diritto al sussidio (fino a 1.300 euro mensili).
Ma la lingua, si sa, batte dove il dente duole. E Giuliano torna a evidenziare quello che è diventato un grande problema nelle settimane antecedenti l’inopinata chiusura dello storico stabilimento tessile. «Purtroppo, al di là della Naspi, non siamo riusciti a fare nulla. Con il Jobs Act - denuncia Gianpaolo Giuliano - è stato tolto qualsiasi tipo di ammortizzatore sociale nel caso in cui un’azienda chiuda i battenti e ufficializzi le procedure di licenziamento collettivo. Ed è il caso, papale papale, della “Tex Giulia”, nel quartiere di Piedimonte. Quindi, niente mobilità. E questa è una penalizzazione che va sottolineata con forza». Jobs Act, vale la pena di ricordarlo, è l’acronimo di Jumpstart our business startups act, utilizzato negli Usa nel 2012 per denominare un intervento legislativo a favore delle piccole imprese. Ma Jobs act è anche la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi sin dal suo insediamento all’inizio del 2014 che introdusse, innanzitutto, come sostanziale novità, il “contratto a tutele crescenti” che, con l’abolizione dell’articolo 18, modifica uno dei cardini dello Statuto dei lavoratori.
C’è anche la beffa. I dipendenti della Tex Giulia saranno formalmente disoccupati dal primo maggio, data in cui si celebra il... lavoro. «Soltanto una delle venti maestranze ha trovato un’altra occupazione. Gli altri diciannove sono alla ricerca di un lavoro. Non è una situazione felice», rammenta il sindacalista della Cgil. Sono tredici uomini e sette donne. Venti complessivamente. Tutti, grossomodo, hanno un’età che va dai quaranta a cinquant’anni e sarà difficile, per loro, trovare un’occupazione, nonostante la loro professionalità sia altissima come conferma la resa del 95 per cento. Loro sono i dipendenti della Tex Giulia, lo stabilimento tessile di Piedimonte, ormai tristemente chiuso. Non ci sono margini. «La resa - conclude Gianpaolo Giuliano, sindacalista della Filctem Cgil - si riferisce al fatto che il 95 per cento del filato prodotto dai macchinari sui quali lavorano è pulito, senza scarto. Soltanto, il 5 per cento ha difetti. Significa che si tratta di personale altamente qualificato che andiamo a perdere».
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