Tradire al tempo degli i-phone

Quand’è che le donne sono diventate i nuovi uomini? direbbe pressapoco Carrie Bradshaw picchiettando sulla macchina da scrivere i famosi incipit della sua rubrica. Quando cioè, trasferendo i dilemmi dell’ormai antologica “Sex & The City” ai giorni nostri, i mariti non inventano più scuse del tipo “vado a fare due passi”, le mogli hanno imparato a maneggiare abilmente l’aspirabriciole per ricostituire l’immacolatezza del talamo e, soprattutto, le “altre”, non stanno più lacrimevolmente attaccate al telefono in attesa che il fedifrago faccia di loro donne oneste? È successo tutto, più o meno, tra “La ragazza con la pistola” (1968), ovvero Monica Vitti che rincorreva, armata, il disonoratore fino a Londra per farsi sposare, e il caso Petraeus (2012), il generale occupato a smistare i dossier della Cia (che dirigeva, a tempo perso) e i messaggi hard alle sue plurime divagazioni extraconiugali.
Appunto. I maschi pasticciano, anche se custodiscono i segreti di Stato della prima potenza mondiale, le femmine ripuliscono i propri I-phone come investigatori privati. Oggi, complice la tecnologia, sono soprattutto le donne a tradire, sono loro i nuovi maschi. Mogli che, al tempo di cellulari e tablet, non hanno certo il problema di Meryl Streep in “Innamorarsi”, quando un semaforo rosso e un treno perso significavano non incontrare mai più Robert De Niro, ma piuttosto quello di rendersi credibilmente irreperibili (pare che l’opzione migliore sia “vado in piscina”, perchè col cellulare multitasking si corre, ma ancora non si nuota). E poi ci sono le amanti che, se non ostentano appagamento da solitudine, non stanno celando con discrezione il loro dolore, ma aspettano che il signore di turno si tolga dai piedi per dormire di traverso nel letto.
Insomma, i lati tradizionali del triangolo sono crollati di schianto, i ruoli si ribaltano, lei fa lui e lo convince che nulla è cambiato e lui si illude di essere ancora nel Novecento, il secolo breve del tradimento, quando non c’era facebook per rimorchiare e Ugo Tognazzi in “Anatra all’arancia” registrava su carta le scappatelle. «Ecco che fine ha fatto la mia agendina» diceva a Monica Vitti che gli sciorinava i nomi. E lei, profetica: «Verrà il giorno in cui ce l’avranno anche le donne l’agendina».
“I mariti delle altre” della giornalista Guia Soncini (Rizzoli, pagg. 175, euro 12) è una cinica e chirurgica ricostruzione delle relazioni a tre, che mescola citazioni letterarie, cinematografiche, musicali, a capitoli, piuttosto crudi, dalla propria autobiografia familiare, ad aneddoti e storielle su personaggi famosi e gente comune, tutti rimasti impastoiati nei ruoli di cornuti e cornificatori. Tra i più divertenti ci sono quelli di Marcello Mastroianni, fuoriclasse dei poligami che, racconta Soncini, è passato per Trieste ai tempi della relazione con Faye Dunaway, anche se l’autrice non ricorda chi le ha raccontato l’episodio. Pare che Marcello, anno 1968, impegnato a girare “Amanti” a Cortina con Faye e alloggiato all’hotel Cipriani di Asolo, avesse affittato un appartamento a Trieste dove teneva l’attrice chiusa a cucinargli pasta e fagioli (forse jota???), riproducendo il tran tran coniugale peraltro mai chiuso con la legittima consorte Flora. Va detto, per dovere di cronaca, che del passaggio di Mastroianni a Trieste all’epoca, non c’è alcuna traccia giornalistica, nè i cinefili ne hanno mai sentito parlare.
Come Mastroianni (una volta pizzicato da Fellini, che lo credeva in Grecia, in un bar di piazza del Popolo a Roma, nascosto dalla moglie e diretto dall’amante, o viceversa, e con un panettone sottobraccio: «Sto aspettando che venga buio»), un altro funambolo dei ménage à trois è stato Vittorio De Sica, il cui figlio Christian ricorda i doppi Natali, Capodanni, compleanni in famiglie diverse, e così Eugenio Scalfari, che per decenni divise scientificamente i territori e le frequentazioni tra la moglie e la donna che lo sarebbe diventata trent’anni dopo, una volta rimasto vedovo.
Il capitolo più divertente è dedicato a lui. Rimasto quello, ironizza Soncini, della rubrica “Maschio” di Francesco Piccolo sulla rivista di genere GQ: in pratica, come un amputato sente ancora l’arto mancante e gli attribuisce funzioni inesistenti, il “maschio” protagonista di quelle colonne fa cose che, in una civiltà ormai estinta, faceva l’arto amputato, ovvero tradire, non fermarsi a dormire, dimenticare i nomi delle amiche della notte prima. Le cose che, in questo secolo, fanno i nuovi scapoli, cioè le donne.
Per loro, per noi, secondo Soncini l’anno di svolta è il 1990, con il film “Turné” di Salvatores, in cui Laura Morante lascia Fabrizio Bentivoglio perchè troppo fragile e si mette con Abatantuono, ma senza il coraggio di dirlo all’ex. È stato un attimo: prima sei lì che fai la vittima dei condizionamenti sociali e del grande amore infelice, un attimo dopo sei Tognazzi, quello di “Amici miei” e delle donne fastidiose come una “coperta bagnata”. Laura Morante diventa la magnifica poligama, modello per generazioni a venire, anche se il suo personaggio è una citazione della Vitti di vent’anni prima in “Dramma della gelosia”: «Tanto io vi amo tutti e due».
A Salvatores, in realtà, l’unica relazione che interessa davvero raccontare è l’amicizia tra uomini. Però Laura Morante segna un punto: è una delle poche peccatrici nella storia a non essere fisicamente eliminata, a differenza della povera Vitti, appunto, e prima di lei della Bovary, della Karenina, della Alex di “Attrazione fatale” e poi di Scarlett Johansson in “Match Point”. Insomma, conclude l’autrice, le femministe facciano un monumento a Salvatores, che ha riaffermato il principio che un uomo solo può anche non bastare e non per questo la sventurata deve morire. È colpa, o merito di “Turné”, se siamo diventate incapaci di essere fedeli, della tecnologia e pure di quella Signora Bovary che Guccini esorta a lasciar perdere l’arsenico e a farsi forza, pur col modesto materiale umano che spesso abbiamo a disposizione: «Signora Bovary, coraggio pure, tra gli assassini e gli avventurieri».
@boria_A
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