Trieste, medaglie ai famigliari di tre persone infoibate: «Così riabbraccio papà»

 

Il sollievo di Licia, 91 anni, e la certezza di Allen: «Zio e nonno morti da martiri»

Maria Elena Pattaro
Licia Felluga riceve la medaglia dedicata al padre Antonio Foto Silvano
Licia Felluga riceve la medaglia dedicata al padre Antonio Foto Silvano

La mano di Licia, 91 anni, stringe forte la medaglia appena ricevuta dal ministro Carlo Nordio. È dedicata alla memoria di suo padre Antonio, trucidato nelle foibe dai soldati titini. «Questo ièra mio papà» dice con gli occhi lucidi e un accenno di sorriso, come se finalmente, dopo quasi ottant’anni di dolore, potesse riabbracciarlo. Anche Allen ricaccia indietro le lacrime quando il Guardasigilli gli consegna due medaglie: una per lo zio Vladimir, giovane seminarista, l’altra per il nonno Anselmo. Sono stati uccisi insieme per non essersi piegati alle minacce dei comunisti jugoslavi e aver continuato a professare la fede cattolica. «Non sono soltanto vittime, sono dei martiri» scandisce il nipote, sollevato di aver simbolicamente chiuso il cerchio su una vicenda che ha dilaniato la sua famiglia.

Giorno del Ricordo, la consegna delle medaglie d'onore ai parenti delle vittime

La cerimonia di lunedì in Prefettura a Trieste, durante il Giorno del Ricordo, è stato un tentativo di ricucire le ferite legate all’esodo giuliano-dalmata e all’orrore delle foibe.

Il Guardasigilli Nordio ha consegnato tre medaglie alla memoria ai parenti degli infoibati: Antonio Felluga, tappezziere di Isola d’Istria; Vladimir Vivoda, seminarista, e suo padre Anselmo, commerciante di Pinguente (Croazia).

Allen Vivoda ritira i riconoscimenti dedicati a nonno e zio. Foto Silvano
Allen Vivoda ritira i riconoscimenti dedicati a nonno e zio. Foto Silvano

Alla consegna erano presenti il prefetto Pietro Signoriello, il presidente Massimiliano Fedriga e il sindaco Roberto Dipiazza. Un momento raccolto, in cui le autorità hanno voluto farsi prossime ai familiari, quasi a voler riparare le atrocità della Storia. Figli, nipoti, pronipoti: i traumi del confine orientale si tramandano da generazioni. A ritirare il riconoscimento c’erano infatti nonni di oltre 90 anni e nipoti di neanche 20. Uniti nel proposito di non dimenticare, anzi di testimoniare ciò che è stato affinché non si ripeta mai più.

«Mio zio è stato ucciso per la persecuzione religiosa, mio nonno è morto nel tentativo di difenderlo – racconta Allen Vivoda –. Vladimir aveva vent’anni, era seminarista a Capodistria e all’epoca era considerato uno dei teologi più promettenti. Gli mancava poco per diventare sacerdote. Era compagno di corso del beato Miroslav Bulesic e il suo maestro era don Francesco Bonifacio, beatificato nel 2008». Il nipote ripercorre la vicenda dello zio che ha conosciuto soltanto grazie alle ricerche d’archivio, con il prezioso aiuto dello storico Mario Ravalico. In famiglia, infatti, l’argomento era quasi un tabù. «Troppo doloroso da affrontare: per mio papà, oggi 92enne, sarebbe come riaprire una ferita mai rimarginata». Lui però ha sentito il dovere di far luce su quell’abisso. «I miei avi non c’entravano niente con la politica e con le ideologie – sottolinea Allen –. Sono stati vittime della persecuzione religiosa che ha colpito decine di presbiteri dell’Istria e le loro famiglie». Era settembre del 1943 e il giovane Vladimir era stato avvertito di lasciare il seminario di Capodistria perché la situazione diventava sempre più pericolosa. «Ma la sua vocazione e l’amore per la sua terra lo hanno spinto a non cedere alle minacce dei titini – spiega il nipote –. Così lo hanno arrestato. Mio nonno ha cercato di opporsi, voleva difendere suo figlio. Sono stati entrambi prelevati dalla loro casa, torturati e uccisi in un bosco vicino a Montona, dopo che i titini li avevano costretti a scavarsi la fossa». Il resto della famiglia si è messo in salvo oltreconfine. Ma le ripercussioni di questa tragedia sono state enormi. «Mia nonna è morta due anni dopo, di crepacuore, perché non è riuscita a reggere il colpo – prosegue Allen –. E i figli sono emigrati in Argentina. Tutti tranne mio papà, che ha scelto di restare a Trieste, ma di non rivangare una tragedia che voleva lasciarsi alle spalle. Chi a vissuto quel trauma in prima persona tende a non raccontare molto. Io invece mi sono sentito in dovere di ricostruire la vicenda, era il minimo che potessi fare. Le medaglie non ci restituiscono i nostri cari, ma sono un riconoscimento e un monito».

 

La pensa così anche Walter Giani, che ieri ha accompagnato la madre Licia Felluga a ritirare la medaglia in memoria di suo padre, Antonio Felluga. Fu catturato nel 1945, seviziato e torturato nella caserma di polizia di Isola d’Istria, fu successivamente deportato nel campo di Aidussina (Slovenia) e gettato nelle foibe. «Ha lasciato una moglie e quattro figlie. La più grande era mia mamma, che all’epoca aveva 12 anni. Sono arrivate in città da profughe, come migliaia di altre persone e qui hanno cercato di rifarsi una vita, ma quella tragedia le ha segnate per sempre». Licia, 91 anni, ieri si è presentata davanti al ministro in sedia a rotelle e bastone, ma con la compostezza di chi andava a chiudere un doloroso conto in sospeso con un Novecento feroce che l’ha privata di uno dei suoi affetti più cari. «Ci ha sempre parlato di suo padre, di quanto le sia mancato e io, da figlio, volevo aiutarla a chiudere il cerchio di un dolore che l’ha segnata tutta la vita. Volevo darle un po’ di sollievo. Noi invece dobbiamo impegnarci affinché simili orrori non accadano più».—

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