Triestina, adesso la città che conta ci metta la faccia

L’esempio arriva dal Parma riemerso dal dissesto grazie ai suoi imprenditori
La Triestina in uno stadio Rocco deserto: l'anonima divisa bianca è un altro simbolo dello sfacelo
La Triestina in uno stadio Rocco deserto: l'anonima divisa bianca è un altro simbolo dello sfacelo

TRIESTE  Per chi vive lontano da Trieste le miserabili notizie sulle sorti dell'Unione, o meglio della società che in qualche modo dovrebbe rappresentarne la prosecuzione, sono ciclici accidenti propagati dalla telefonata di un vecchio amico, dalla battuta del collega che segue il calcio minore, dal tweet di un giornalista del Piccolo: sgocciola così lo stillicidio di mediocri pendenze che una volta sono il conto non saldato del ristorante in cui mangiano i giocatori e un'altra la fattura inevasa della ditta che ha confezionato le magliette. Contenziosi da rubagalline che con una parola roboante potremmo definire indegni della città, se non fosse che la stessa città - anziché sentirsi umiliata nel profondo da una simile contabilità - nelle sue componenti economicamente più capaci assiste disinteressata a tanto sfacelo.

Intendiamoci: non c'è scritto da nessuna parte che un imprenditore abbia dei doveri nei confronti della sua città, né che la sponsorizzazione di una mostra o l'intervento in favore di uno sport meno complesso non siano meritori. Ma siccome siamo in Italia, non possiamo nasconderci che per ogni città la squadra di calcio sia da una parte il terreno più immediato nel quale sentirsi collettività; dall'altra il biglietto da visita da esibire a un mondo esterno che ci studia non soltanto attraverso grafici, tabelle e statistiche, ma anche attraverso indicatori più popolari. Non sto pensando a ciò che significano la Juve per Torino o la Roma per Roma - non ho pretese così elevate - ma al fatto che la realtà più fresca e innovativa della serie A venga da Sassuolo.

Bandiere alabardate in un passato nemmeno tanto lontano allo stadio Rocco
Bandiere alabardate in un passato nemmeno tanto lontano allo stadio Rocco

Leggo che il presidente Pontrelli, valutata una situazione che con un eufemismo potremmo definire priva di prospettive, annuncia l'imminente cessione delle sue quote a un imprenditore veneto che ha già avuto esperienze nel settore. Ecco, se nel grande calcio moderno i capitali viaggiano ormai senza limitazioni, ed è normale trovare un russo proprietario del Chelsea, un emiro a capo del Paris St.Germain e un thailandese a presiedere l'Inter, io penso che a Trieste l'urgenza sia esattamente opposta: trovare una proprietà che sia cittadina, che "ci metta la faccia", modo di dire abusato ma chiaro. Una proprietà in grado di tenere lontana la pletora di figure inadeguate, se non proprio faccendiere, che da anni si palleggiano la Triestina trattandola come una mucca sempre più scheletrica, da mungere fino a estrarne il sangue. I tifosi, rifiutando la concessione del marchio, hanno capito quanto sia improrogabile un cambio di passo. E non certo per vincere lo scudetto, perché non stiamo parlando di capitali ingenti; stiamo parlando dei fondi necessari per risolvere il concordato fallimentare di fine mese (qualche centinaio di migliaia di euro la previsione) e, liquidato Pontrelli, di quelli sufficienti per ripartire su basi solide.

Il Parma è passato di recente per un disastro societario così grave, e così sentito in città, da "costringere" Guido Barilla - per anni indisponibile a qualsiasi discorso calcistico - a farsi promotore di una cordata di industriali cittadini che ha salvato la società per rilanciarla in modo del tutto nuovo. Alla presidenza è stato chiamato Nevio Scala, l'allenatore dei grandi successi degli anni 90, persona di onestà specchiata e passione sicura: una bandiera tecnica alla cui ombra sta lavorando un giovane manager designato dal capocordata con l'incarico di riportare il Parma in alto seguendo la pulizia e l'amore per il calcio come criteri non negoziabili.

Unione 2012, arrivano i "Visitors"
Marco Pontrelli

Grazie alla stima generale di cui gode Barilla (per ora entrato a titolo personale), in molti vedono in quest'impresa un punto di ripartenza morale non solo per il club, ma per l'intero calcio italiano. Quel che la Barilla è per Parma, la Illy è per Trieste: un'azienda di straordinario successo planetario (non c'è luogo nel mondo, e ne ho visti molti, nel quale non sia riuscito a gustarmi quello che considero il "mio" caffè), che proprio per questo dal punto di vista della comunicazione ha molto più interesse a farsi vedere a New York o a Tokyo che non a Trieste. Ma questa, come si diceva, non è una storia di interessi: è la speranza in una scintilla che possa riavviare un motore virtuoso, coinvolgendo le altre forze della nostra città. Se quindi la famiglia Illy è l'inevitabile primo nome per peso e carisma imprenditoriale, le capacità di Enrico Samer - che nell'allestimento di quel piccolo gioiello che è la Pallanuoto Trieste ha ampiamente provato il suo valore - sarebbero fondamentali per allargare e impreziosire il discorso. Federico Pacorini ha mostrato in passato la sua sensibilità per lo sport cittadino, e nei porti d'Europa e non solo nei quali mi capita di passare il suo nome continua a essere scritto in caratteri per i quali non ho bisogno di occhiali.

Ho chiesto aiuto ai colleghi de Il Piccolo per allungare questa lista, sono via da più di trent'anni e non ho il polso esatto della situazione: loro hanno aggiunto nomi di imprenditori che pur venendo da fuori non considerano Trieste solo un polo d'interessi, ma un luogo in cui investire anche in cultura sportiva. Bragagnolo, Dukcevich, Calligaris, Arvedi: sarebbe un piacere e un onore avervi a bordo. Infine, la perla che chiunque nel mondo mi cita, allargando il sorriso, quando apprende di parlare con un triestino: «La Barcolana, che meraviglia!». A volte il calcio può essere un'avventura complicata: ma se i manager che hanno fatto della nostra regata fra amici un evento di cartello della vela internazionale volessero occuparsene, mi sentirei tranquillo.

Molti altri discorsi andrebbero aperti sul tema, perché un club come la Triestina può crescere solo attraverso un grande vivaio, e quindi il primo compito di una società forte sarebbe quello di parlare con tutti i club della provincia per proporsi come (onesto) collettore del talento giuliano: mi dicono che ci sono accademie organizzate così bene da essere dei modelli. Il fatto che a Bilbao - uno dei miei luoghi di calcio preferiti - arrivino in Champions con ragazzi esclusivamente baschi dimostra come un buon sistema (bravi dirigenti, bravi istruttori e anche bravi genitori) possa produrre frutti strepitosi senza svenarsi. Anzi.

Per fare ciò, occorre però un centro sportivo degno di questo nome: detto che la serie D andrebbe mantenuta come base di decollo, gli sforzi di una nuova proprietà andrebbero rivolti in quella direzione. Qui entrano in ballo anche gli amministratori (terreni agevolati), e uso questo termine anziché quello di "politici" per sottolineare come un argomento del genere necessiti di unità d'intenti. È un periodo elettorale, il più difficile per parlare la stessa lingua: ma il dramma sportivo della Triestina è cominciato troppe elezioni fa per non provarci subito.

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