Trincee di sangue sui lunghi pendii tra il Carso e l’Isonzo
di PAOLO RUMIZ
Era ottobre. Una sera con pioggia leggera, in un'osteria dalle mie parti. Ai tavoli si cantava, quando, saranno state le 22, un richiamo lungo, forse un bisbiglio, mi chiamò da fuori e mi disse di andare per strade deserte. Non era un bisogno mio, era uno di quegli ordini che arrivano non si sa bene da dove e ai quali non ci si può sottrarre. L’osteria era in una zona buia, di villaggi sparsi, tra il Carso e l’Isonzo, e appartarsi non era difficile. Il pendio brullo dell'altopiano e, sul lato di pianura, una ferrovia con passaggio a livello sigillavano un gruppo di case come in una bolla senza tempo.
Alla base del monte la terra serpeggiava di segnali e il posto li captava come il pennino di un sismografo. Le case sentivano il fronte, fiutavano posti da arma bianca nella notte negra. Trincea delle Frasche, San Michele, Selz, Monte Sei Busi. Conoscevo a memoria quel dislivello. Ogni metro era impregnato di agonie, segnato da vite smembrate, crocefisse su reticolati o mutilate da tagliole, ma nulla rammentava l'immensità del dolore. Avrei dovuto calpestare bossoli, immondizie, sangue, stracci, membra umane, gavette, resti di cibo, zoccoli, ferri, escrementi, suole di scarpe, ma l'uomo e la natura avevano cancellato meticolosamente ogni cosa. La notte profumava di erba, e interi paesi dormivano, mangiavano e facevano l'amore sui resti di un immane sacrificio umano.
Presi la stradina che sale oltre la chiesa di Santo Stefano fino a un piccolo monumento a due soldati della Grande Guerra. Poco oltre mi affacciai sull'infinito in un varco tra giardini e villette.
A pagina XVII
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