Un’infermiera sveglia a “schiaffi” una donna processata e assolta
È finita a processo per aver risvegliato la paziente da una crisi epilettica. L’infermiera professionale l’aveva sollecitata con “colpetti” alle guance per controllarne lo stato soporoso e riportarla a livello di coscienza. Una manovra del tutto “rituale” e propria di questi casi, peraltro non certo infrequenti. Vona Piacentina, 53 anni, residente a Monfalcone, s’è trovata a dover rispondere di percosse aggravate semplicemente per aver fatto il suo dovere nell’applicare correttamente l’intervento sanitario. E il giudice di pace Giuseppe La Licata l’ha assolta, perché il fatto non costituisce reato. La vicenda risale all’ottobre 2015. La paziente, colta da una crisi epilettica, era stata rinvenuta dai sanitari intervenuti nell’abitazione riversa a terra, in stato di incoscienza. L’equipaggio dell’ambulanza di soccorso avanzato, composto oltreché dall’infemiera professionale, anche da due soccorritori, eseguita una prima raccolta di elementi sulla paziente avvalendosi delle informazioni del marito, aveva proceduto a caricarla sul mezzo alla volta del San Polo. Considerato lo stato di incoscienza mantenuto durante il tragitto, l’infermiera l’aveva quindi percossa determinandone il risveglio. La paziente, ripresa la condizione vigile, al Pronto soccorso aveva riferito quanto le era accaduto al marito, sopraggiunto nel frattempo, il quale aveva riscontrato il rossore ed il gonfiore alla guance della congiunta. La donna aveva poi ribadito il suo racconto anche al medico del Pronto soccorso che l’aveva visitata.
Tanto è bastato per comparire a giudizio. Il giudice è stato chiaro nella ricostruzione dell’evento e nelle sue conclusioni. Ha inquadrato la vicenda sotto il profilo giuridico e costituzionale. «La stimolazione sensoriale dolorosa è un intervento sanitario tipico e necessario durante le crisi epilettiche per promuovere l’organizzazione cerebrale e quindi la ripresa della normale attività elettrica del cervello, nonché per valutare il grado di coscienza del paziente», ha rilevato nella sentenza. S’è soffermato sul diritto alla salute e sul divieto dei trattamenti sanitari se non nei casi previsti dalla legge. Il giudice ha osservato che «il trattamento sanitario compiuto nel rispetto delle leggi, costituisce un’attività intrinsecamente lecita, in quanto non offensiva degli interessi protetti, dell’integrità fisico-psichica e vita, anche se per attuarsi abbisogna di “maltrattare” la persona che ad esso si sottopone». Insomma una manovra necessaria. Diversa invece è un’attività sanitaria «arbitraria», caratterizzata da «caparbietà, ostinazione, accanimento» e che determina lesioni al paziente. Rossore e gonfiore al volto della donna erano semplicemente regrediti durante la visita medica. Altro aspetto è il racconto della paziente che, pur in assoluta buonafede, era frutto di un vissuto «in una fase di coscienza ancora ristretta». Per il giudice «difetta l’elemento soggettivo del reato».—
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