Uoto Ughi: «Il mio primo concerto con la nonna»

Per i tipi dell'Einaudi è uscito un elegante volumetto dal titolo intrigante: “Quel diavolo di un trillo” (pagg. 180 - 13 €). Ad acuire la curiosità ma a chiarire il contenuto intervengono il sottotitolo e la fotografia dell'autore: “Note della mia vita, Uto Ughi”.
Al celebre violinista chiediamo: mica avrà deposto l'archetto per la scrittura? «Neanche per sogno. Il tempo scorre veloce - risponde - ma studio e lavoro a ritmo intenso, come sempre. Mi è stato chiesto di buttar giù ricordi, impressioni, pensieri, e siccome in fondo sono un comunicatore, ho acconsentito. Il musicista non è uno isolato, è uno che ama condividere le proprie emozioni».
E del resto da qualche tempo lei usa formulare alcune brevi parole prima delle esecuzioni.
«È diverso. Ho spesso constatato che c'è disinformazione, che i programmi di sala non vengono consultati, o che non è possibile leggerli vuoi per il buio, vuoi per i caratteri minuscoli. Poche parole introduttive inducono alla concentrazione e aiutano l'ascolto».
Nella stesura del suo libro ha seguito un piano?
«No, perchè gli argomenti si sono presentati spontaneamente. Ho dedicato una parte importante della pubblicazione ai ritratti, ai tanti artisti, per lo più musicisti, che ho avuto la fortuna di incontrare e di conoscere. In certi periodi della mia carriera mi sono dedicato a progetti organizzativi, “Omaggio a Venezia” e relativo premio “Una vita per la musica”. Cambiando residenza è arrivato “Omaggio a Roma”. Col primo si valorizzava una città unica al mondo, il secondo mira a preservare un patrimonio altrettanto unico. Si dice che gli artisti precorrono i tempi, che a loro spetta talvolta di rischiarare la strada all'umanità intera. Nomino due personalità che ho segnalato per il premio a Venezia, Menuhin e Rostropovich, ma potrei farne a decine. Hanno lasciato un segno e non devono finire nel dimenticatoio perchè hanno interpretato solo musiche altrui».
Nel libro lei concede finalmente un po’ di spazio a se stesso, lasciando intravedere qualche avventura sentimentale, in certi momenti qualche disagio e il desiderio di isolarsi.
«Volgendo lo sguardo all'indietro mi accorgo di essere stato molto esigente. Per decenni ho inseguito un unico sogno, quello di poter disporre di due strumenti che mi potessero appagare. Ce l'ho fatta, oggi posso scegliere fra due preziosi, uno “Stradivari” e un “Guarneri del Gesù”, ma sono single. Ed è come se mi fossi sposato con l'ascolto, col pubblico. Questo ama l'artista che dà tutto se stesso e io non ho mai tirato al risparmio. Nel libro ho descritto un'avventura agli antipodi. Quarant'anni fa, giovanissimo, senza esperienza, acconsentì a una fitta tournée in Australia e Nuova Zelanda. Ogni concerto radio o teletrasmesso in diretta: sessanta esibizioni da solo o con orchestra in due mesi e mezzo. Portai a termine l'impegno ma mi raccolsero col cucchiaio, al pronto soccorso. Prolungai il soggiorno di un altro mese per la convalescenza....».
Il libro serve per mettere puntini sulle "i", ogni tassello al suo posto.
«Per non alimentare leggende, qualcuna persino sul mio nome di battesimo. Sono nato a Busto Arsizio dove la mia famiglia si era stabilita dopo aver abbandonato l'Istria. Mio papà, avvocato con studio a Milano, mi mise il nome in ricordo del suo fratello minore che si chiamava Bruto, morto in guerra nel '42 ad El Alamein. Anche mio nonno, medico chirurgo molto noto a Pirano e con una bella casa nella piazza principale, aveva un nome inconsueto, si chiamava Celso. Io non l'ho conosciuto, ma con la nonna, Pia Rupnik, bravissima pianista, ho fatto il primo duo ed ho dato il mio primo concerto pubblico: una Sonata di Mozart. Avevo cinque anni».
È stata la prima dei "suoi" pianisti. A loro ha dedicato un intero capitolo.
«Il partner al pianoforte è determinante per un violinista. Talvolta ne ho avuto degli occasionali, Sawallisch, Argerich, Magaloff, Buchbinder, adesso suono spesso con Alessandro Specchi, fra gli stabili ricordo con immutato affetto e nostalgia un pianista che ho avuto al mio fianco per decenni, Eugenio Bagnoli, veneziano doc».
Si direbbe che lei si sia dedicato poco al tempo libero.
«Visitando paesi lontani, mi piace approfondirne la conoscenza ma non faccio villeggiatura comunemente intesa. Qualche settimana in Val di Fiemme, qualche escursione all'Isola del Giglio».
Diventata celebre suo malgrado e dove recentemente è riaffiorato il suo tono polemico.
«Nessuna polemica, solo la nuda verità. Scopersi l'isola molti anni fa e subito la elessi a luogo del cuore. La sua gente è per me come una famiglia. Ne conosco usi e costumi, il Coro, il teatro amatoriale, la banda, persino il vino, l'Ansonatico, forte e ambrato. In omaggio ai gigliesi e in ricordo delle vittime del naufragio del “Concordia”, vi ho offerto un concerto assieme ai colleghi amici Angelo Stefanato e Franco Petracchi. Alla fine mi sono rivolto al pubblico paragonando il nostro Paese a una nave finita sugli scogli, ma con una parte della popolazione, la migliore che, come quella del Giglio, reagisce compatta, interviene in aiuto e alla fine saprà restituirci dignità e decoro».
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