«Uranio impoverito, ci siamo ammalati»: cinque militari serbi accusano la Nato

In tribunale a Belgrado le prime cause per risarcimento Additate le munizioni usate nei bombardamenti del 1999
BEL18-28041999-SURDULICA; YUGOSLAVIA-: A member of a rescue team holds a sweater, as he and his colleagues search the rubble of destroyed houses, Wednesday 28 April 1999 in Surdulica, some 250 km south of Belgrade, after the village was hit during a NATO air raid on Tuesday. At least 20 civilians were killed and many injured, when NATO aimed to hit army barracks in Surdulica. EPA PHOTO/VLADIMIR VETKIN/as
BEL18-28041999-SURDULICA; YUGOSLAVIA-: A member of a rescue team holds a sweater, as he and his colleagues search the rubble of destroyed houses, Wednesday 28 April 1999 in Surdulica, some 250 km south of Belgrade, after the village was hit during a NATO air raid on Tuesday. At least 20 civilians were killed and many injured, when NATO aimed to hit army barracks in Surdulica. EPA PHOTO/VLADIMIR VETKIN/as

BELGRADO Cinque Davide, uomini in divisa inquadrati nell’esercito serbo che si sono forse ammalati a causa dell’uranio impoverito; contro un Golia, la Nato, sul banco degli imputati per avere usato munizioni “tossiche” durante i bombardamenti del 1999.

Sono questi i protagonisti di una guerra giudiziaria ancora agli albori, in Serbia, ma potenzialmente esplosiva. A dichiararla è stato l’avvocato serbo Srdjan Aleksić, da anni in prima linea in questa sfida dagli esiti incerti, che ha presentato in un tribunale di Belgrado una prima causa individuale di risarcimento (non è stata resa nota alcuna cifra) contro l’Alleanza atlantica; e altre quattro seguiranno a breve. Il primo a essere rappresentato da Aleksić è un anonimo militare serbo ammalatosi di cancro dopo la guerra del 1999: secondo l’avvocato, una delle tante vittime delle munizioni all’uranio impoverito (Du) usate dalla Nato nei Balcani. Parliamo di «ufficiali, soldati e poliziotti ma anche riservisti che erano di stanza in Kosovo», ha spiegato Aleksić dopo aver presentato il primo ricorso. La strategia del legale è del tutto speculare a quella osservata negli ultimi anni in Italia da parte di tanti militari impiegati in missioni all’estero, dalla Bosnia al Kosovo fino all’Iraq, tutte aree dove sono state utilizzate munizioni rivestite di uranio impoverito. Militari poi ammalatisi. «Condurremo le cause come ha fatto l’avvocato Tartaglia a Roma», ha annunciato Aleksić, facendo un riferimento ad Angelo Fiore Tartaglia, rappresentante in tribunale di decine di uomini in divisa italiani venuti in contatto con le nano-particelle. Lo stesso sarebbe dunque accaduto a un numero imprecisato di soldati serbi, vittime di «leucemie, tumori al cervello, alle ossa, specifici dell’uranio impoverito», ha spiegato Aleksić, che ha sostenuto di avere dalla sua studi dell’Oms e dell’esercito Usa.

Si tratta di cause che avranno sicuramente enorme eco in Serbia, Paese dove le ferite dei bombardamenti del 1999 non si sono ancora rimarginate e dove c’è diffusa consapevolezza dei danni causati dalle munizioni all’uranio. A rinforzarla sono state anche le mosse delle autorità al potere, che nel 2018 hanno creato una commissione d’inchiesta sugli effetti dei raid Nato che ha ricevuto anche appoggi dall’Italia. Nel 2019, la commissione ha presentato un primo studio sul tema, sostenendo che i bambini nati nel Paese dopo il 1999 sarebbero più vulnerabili a malattie e cancro.

Ma quanto “Du” sarebbe finito in Serbia e nell’ex provincia del Kosovo? Stime fatte immediatamente dopo il conflitto da Amnesty International, basate su informazioni riservate di funzionari Nato, parlavano di «31 mila proiettili» con uranio impoverito sparati «durante la campagna» del 1999, in stragrande maggioranza sul territorio del Kosovo. Si trattava di «munizioni che sembrano rappresentare una minaccia a lungo termine per civili e ambiente», aveva ammonito ancora nel 2000 Amnesty. E non parliamo di briciole, ma di circa 31.000 proiettili, con almeno dieci tonnellate di Du, secondo stime Onu. Dopo due decenni – vent’anni di sospetti, paure, accuse e studi dai risultati contrastanti – ancora non è stata pronunciata però una parola definitiva sull’impatto del Du sulla popolazione serba e kosovara, mentre la Nato ha sempre negato un legame causale tra uranio e malattie. Uno studio pionieristico ha però in parte confermato i timori serbi. È quello sviluppato da ricercatori dell’università di Pristina e dell’autorevolissimo Imperial College di Londra e pubblicato nei mesi scorsi sulla rivista scientifica Plos One, a firma di Hatixhe Latifi-Pupovci e di altri studiosi.

Non ci sono ancora «prove conclusive di una relazione causale tra l’uso dell’uranio impoverito e l’aumento» dei tumori in Kosovo, hanno messo le mani avanti gli studiosi, ma la loro indagine contiene degli indizi. I ricercatori hanno infatti indagato «in maniera retrospettiva» 1.800 pazienti kosovari, ammalatisi di leucemia, mielomi e linfomi Hodgkin e non-Hodgkin «negli ultimi vent’anni», scoprendo «un aumento dell’incidenza» di tumori del sangue su tutto il territorio del Kosovo, ma in particolare nell’area di «Gjakova e Peja». E proprio Giakova/Djakovica e Peja/Pec furono la «prima e la terza regione più esposte» all’uranio impoverito. E fra quelle dove dal 1999 hanno operato i peace-keeper italiani. —


 

Riproduzione riservata © Il Piccolo