Ypres ripete alle otto della sera il rito collettivo della memoria

A piedi per 1700 km lungo il fronte della Grande Guerra. Grazie a braccialetti interattivi, nell’In Flanders Fields Museum si possono scoprire storie che legano i visitatori a chi venne coinvolto nel conflitto

«Perché mai te va in Francia picio?». «Perché go bisogno de capir». Forse non c'è niente da capire, proprio per il fatto che le guerre sono funzionali solo per chi teoricamente le pianifica. «No sta misiarte co la politica» mi raccomanda quel mio bisnonno, fante austroungarico ma istriano dal XIII secolo, spedito al fronte in Galizia, catturato dai cosacchi e portato in Siberia.

E infatti non lo faccio. Dopo giorni di cammino nel Kent a Dover aspetto un traghetto che mi porta a Calais, in Francia. Da qui i soldati di sua Maestà venivano spediti al fronte a supporto dei francesi e della corona belga la cui neutralità era stata violata scatenando l'entrata in guerra di Londra. Dover fu una delle poche città inglesi ad essere bombardata durante la Grande Guerra.

«La vigilia di Natale del 1914 cadde la prima bomba tedesca sul suolo britannico nei pressi del castello», mi confida Lynda Pearce, assistant curator del Museo di Dover.

Alle 7 di mattina il porto assume già le sembianze di un formicaio. Un ragazzo che lavora lì mi dice che due volte al mese vengono sequestrati notevoli quantitativi di cocaina e che i trafficanti sono soliti nascondere la “roba” dentro gli ananas provenienti dal Sud America. «No sta misiarte co ste robe», mi sussurra Nicolò.

In un'ora e mezza sono in Francia. Poi un treno per Hazebrouck e transito verso Steenwordee, nomi fiamminghi in terra francese. Negli uffici turistici l’allergia tipicamente d’oltralpe nel riprodurre i suoni dell’anglais, mi manda in confusione. Mi viene da pensare che la costruzione di un’Europa veramente unita dovrebbe passare attraverso procedimenti che nulla hanno a che fare con parole come spread, fiscal compact o forniture di gas marcate Gazprom.

Nel cammino verso Ypres, le piantagioni di luppolo si arrampicano fin dove l'ignavia assorbe l'incomprensione. «Questa terra è l'ultimo testimone del conflitto». Piet Chielens ama definirsi "coordinatore" anche se è uno dei direttori del In Flanders Fields Museum di Ypres, viva creatura della memoria di queste terre.

«Le persone vengono qui da ogni parte del mondo e chiedono informazioni sui loro cari, dov'erano quando sono deceduti e cerchiamo di dare loro risposta».

All'entrata ti danno uno di quei braccialetti di plastica che sembra scandire il tempo. Effettui il log in inserendo nome, cognome e nazionalità. Poi durante il percorso ad ogni stazione ti fermi ed avvicini il braccialetto allo schermo. Ti legge, analizza e conclude. «Un'infermiera inglese a Gallipoli è la persona a cui è legato il tuo nome» recita il sistema.

«Nonno, ma no ti ieri in guerra?».

Qui il conflitto fu tremendo. Ypres vide tre grandi battaglie tra il 1914 ed il 1917 e quella memoria inglese trascritta sui memoriali visti qualche giorno fa, qui si traduce in più di 140 cimiteri ed un turismo della memoria che il solo pensiero sulla gestione del patrimonio nostrano mi innervosisce. Qui dove la città prende il nome dall'iprite, i gas furono usati dall’esercito tedesco contro gli inglesi e francesi. Ne furono utilizzati di svariato tipo.

La prima volta che il cloro fece la sua comparsa fu nella Seconda battaglia di Ypres tra l’aprile ed il maggio 1915. L’iprite, detto anche mustard gas, fu inumanamente spedito al fronte nell’autunno del 1917 quando la Terza battaglia di Ypres, chiamata comunemente la battaglia di Passchendaele, vide oltre mezzo milione di caduti. Tutto qui riporta ad una memoria di sangue.

A piedi per 1700 chilometri percorrendo il fronte della Grande guerra
Nicolò Giraldi

Al cimitero tedesco di Langemarck sono conservati i resti di oltre 40 mila caduti. Dopo la presa di Parigi durante la seconda guerra mondiale, Hitler decise di visitare dopo la capitale proprio questo cimitero sul quale negli anni precedenti la propaganda nazista aveva costruito il mito della strage degli innocenti (Kindermord in tedesco ndr) e in mezzo ai quali il Führer aveva finto di essere.

Mi reco al cimitero assieme ad un gruppo di archeologi tra cui anche il professor Armando De Guio dell’Università di Padova e Zeljko Cimpric, curatore del Museo di Caporetto.

«È la prima volta che vedo componenti di un’associazione tedesca neonazista venire a rinnovare gli omaggi alla leggenda. Sono leggermente sconvolto», mi confida Piet Chielens, qui in veste di guida.

I contadini belgi quando arano trovano i resti della follia umana. Impilano tutto sul vialetto di casa ed aspettano che passino gli artificieri.

«Qualche mese fa in un campo sono morti alcuni operai ungheresi per lo scoppio di una granata inesplosa», ha riportato la stampa britannica. La città di Ypres ha tuttavia voglia di essere un luogo di pace e di ricordo. Così la sera mi dirigo verso il Menin Gate, la grande porta che apre la strada verso il paese di Menen. Dalla fine della Grande guerra, con un’unica interruzione durante l’occupazione nazista, ogni sera alle otto una cerimonia ricorda i caduti del conflitto.

Mi raccomandano di arrivare almeno alle sette e mezza così sarò in grado di assistere alla cerimonia da un buon posto. Non li ascolto e mi presento un’ora prima.

Niente da fare. Sotto il grande arco in pietra bianca ci saranno almeno 800 persone che aspettano il “Last Post”. La maggior parte sono britannici i quali quando viene suonato “God save the queen” riprendono silenziosamente il testo e lo consegnano alle decine di studenti portati qui ogni giorno dall’Inghilterra in base a un progetto governativo.

E il pensiero sul come costruire l’identità europea riaffiora.

(2 - Segue.  La prima puntata è stata pubblicata il 20 maggio)

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