A piedi per 1700 chilometri percorrendo il fronte della Grande guerra

Quasi 1700 chilometri. All’incirca tra gli otto e i dieci chili di bagaglio, che poi chiamarlo così, un po’, mi scoccia. Londra i primi giorni di maggio non sa ancora da che parte stare. La primaverasenza alla mia scalpitnte voglia di partire. Parto. Dove vado? Nicolò Giraldi, che poi sarebbe il mio bisnonno da Sicciole d’Istria, fante austroungarico in Galizia, mi avrebbe raccomandato di rubare un fazzoletto bianco in qualche sosta lungo la strada. «Se ti vedi che le robe le va mal, ti alzi sto tovaiol co’ la man sinistra e ti speti». «Speto cosa nonno?». «Che sta maledeta guerra finisi, picio».
Lui non sa che partire alla volta del fronte da Londra, in confronto all’agosto di cento anni fa, è una passeggiata. Da Charing Cross vado a Dartford, sulla Motorway. “Te ga de presentarte al Comando la?”. Nicolò non sa che ho deciso di partire a piedi da Londra in direzione Trieste lungo i fronti della guerra che lui fu obbligato a combattere.
L’Impero britannico fu coinvolto durante il conflitto fin da subito. La Triplice Intesa di cui faceva parte dopo aver trasformato a suo favore la coloniale rivalità con la Francia nell'Entente cordiale, e aver innescato nei francesi la cosiddetta sindrome di Fascioda, venne mobilitata in pochi giorni dopo Sarajevo. Le relazioni già difficili con l'Impero tedesco e la definitiva presa di posizione nei confronti di una maggiore presenza diplomatica all'interno dello scenario europeo, fecero in modo che Londra decidesse per un intervento non più procrastinabile.
Che poi è la mia politica. Parto. O meglio, mi metto in cammino. Prima, però, faccio un biglietto per Trieste, con qualcosa come una sessantina di cambi. L'idea è percorrere il fronte occidentale della Grande guerra nel suo centenario. A piedi. Prima di arrivarci, devo coprire la distanza che intercorre tra Dartford e Dover, sede del porto da dove milioni di soldati inglesi vennero imbarcati verso le Fiandre e la Francia. E dove, in quasi 700 mila non ritornarono.
La Darren Valley è un percorso fluviale appena fuori dalla M25, il raccordo anulare londinese. La velocità con cui il tempo cambia sull'isola inglese mi suggerisce i primi cambi d'abito. L'incontro con alcuni pescatori di carpe che sembrano plasticamente rivestiti di un color kaki che lungo la strada ritroverò, rivela tutto il suo impatto sull'ambiente circostante. Dopo aver passato alcuni prati perennemente umidi ed alcuni ponti e passaggi di collegamento al grande sistema di sentieri del Kent chiamato North Downs, mi ritrovo a discutere con un anziano signore di Horton Kirby.
Mi dice che per andare a Stansted devo andare diritto su per una collina e seguire sempre la strada. No, non vado in Essex, dove decine di triestini arrivano ogni settimana. Stansted si trova anche nel Kent.
A Fawkham Green incontro le prime croci. Il Kent è costellato di piccoli memoriali che ricordano le centinaia di migliaia di soldati caduti durante il conflitto. Fairseat, Birling, Leybourne, Doddington e Newnham. Moltissimi paesi condividono i memoriali, spesso a metà strada tra un paese e l'altro. Non ci sono tombe di soldati della Grande guerra in Inghilterra. Gli inglesi non erano autorizzati a rimpatriare le salme cosicché, a conflitto concluso, la Commonwealth War Graves Commission, avendo già individuato i nomi di quasi 587 mila caduti, decise assieme alla Corona di costruire la memoria in patria.
A Stansted il reverendo Chris Noble mi accoglie e per prima cosa mi mostra una Cupressacea, lì dal 1300. C'è persino una catena intorno al suo ormai tronco semi cavo, srotolata così affinché non ceda. Attorno alla targa che ricorda i caduti di questo paese i fiori di papavero, i poppies, sono ormai parte dell'estetica. «La nostra storia è anche questo, non credo possiamo permetterci di farne a meno».
Lasciando Stansted mi accorgo che qui vive la vera Inghilterra. Parole come pandemonio o crescendo hanno un senso, perché vengono usate e fanno parte di quella stessa società che mandò milioni di giovani a morire per la Corona.
«Ci furono soldati inglesi che a Mesen assieme ai tedeschi corsero dietro ad un pallone come se fossero stati dei bambini, dimenticandosi completamente di quello che stavano facendo un attimo prima». Ernie Brennan a Maidstone è direttore della National Children Football Alliance, associazione che ha come obiettivo quello di «lavorare a stretto contatto con bambini che provengono da background difficili, violenti, di profondo disagio e che trovano nel gioco l'unica soluzione ai problemi che affliggono l'ambiente famigliare». Il parallelo con ciò che accadde durante la tregua di Natale del 1914 è semplice. «Quegli stessi soldati inconsciamente intravidero nelle poche ore di pace la possibilità di evadere dall'assurda logica della guerra. Quello che cerchiamo di fare è diffondere nei ragazzi l'idea che il calcio o qualsiasi altro sport sia veicolo di comprensione e di superamento dei conflitti nel nome di una lingua comune».
Che l'Inghilterra stia cercando di celebrare nel migliore dei modi il Centenario del primo conflitto mondiale lo si nota un po’ dappertutto. «Who gave their lives for their country in the Great War» è epitaffio onnipresente su qualsiasi memoriale. Qui, la guerra, se non per alcuni isolati casi come King's Lynn nel Norfolk o Dover, non mostrò la sua violenza. Ed è proprio per questo che decine di musei come l'Heritage di Canterbury o il Dover Museum dedicano ampie retrospettive a ciò che accadde ed hanno un programma già ben che definito di quelle che saranno le celebrazioni del centenario della Grande Guerra.
«Se un Paese non dà la giusta considerazione al passato come può costruire il futuro?», confida Lynda Pearce, assistant curator del museo di Dover.
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