Addio a Ida Barbarigo Cadorin l’ultima artista di una dinastia compagna di vita di Muši›

Addio a Ida Barbarigo Cadorin. E, con lei, a una stagione «eroica» dell’arte veneziana tra secondo ’900 e nuovo millennio, quando la città era ancora un luogo di produzione culturale e artistica per...
Addio a Ida Barbarigo Cadorin. E, con lei, a una stagione «eroica» dell’arte veneziana tra secondo ’900 e nuovo millennio, quando la città era ancora un luogo di produzione culturale e artistica per grandi protagonisti e non solo una “vetrina” espositiva più o meno scintillante. Si è spenta serenamente ieri mattina - all’età di 98 anni - nella grande, intima e scenografica casa-atelier di Palazzo Balbi Valier a San Vio in cui aveva vissuto a lungo insieme a Zoran Mušič, compagno d’arte e di vita - la grande artista veneziana, ultima testimone di una dinastia illustre, essendo figlia di un altro grande pittore lagunare ’900 come Guido Cadorin. «La creatività artistica - aveva dichiarato pochi mesi fa nella sua ultima intervista alla Nuova Venezia - è un regalo, un richiamo a cui non è possibile resistere. Non conta la bravura, il merito. E io, per dipingere, ho sempre avuto bisogno di un'emozione, senza non è possibile. Un'emozione umile, ma indispensabile. Ida scompare e arriva l'ispirazione».


Per questo soffriva, negli ultimi anni, di aver dovuto interrompere la sua incessante ricerca, circondata comunque dai suoi dipinti - tra le Erme e i Saturni, tra le sue Sedie e i grandi ritratti "pretesi" dall'allora presidente francese François Mitterrand, che qui si rifugiava nelle sue scorribande veneziane - e da quelli del padre Guido. Aveva già deciso, presagendo la prossima fine - per la cremazione, per riunirsi così a Zoran Mušič, al cimitero di San Michele dove riposa da oltre dieci anni, scomparso nel 2005 - ed espresso la volontà che il patrimonio di opere che conservava (le sue, quelle di Mušič e di Cadorin) potessero alla fine passare a Palazzo Fortuny, il museo veneziano che lo scorso anno aveva dedicato un’importante mostra proprio alla “dinastia” dei Cadorin.


Vissuta per anni con Mušič, pur mantenendo nello stesso edificio spazi e studi differenti per preservare ciascuno la propria identità pittorica e la forte personalità, Ida - reduce da un delicato intervento - si interrogava da tempo con lucida serenità, quasi con una forma di ironico disincanto, sulla fine, ma con una pressante esigenza di verità, che si mescolava inevitabilmente ai ricordi. Quelli di famiglie di artisti intrecciate - i Cadorin e i Tivoli, artisti e fotografi, scultori e restauratori, architetti ed ebanisti. «Io sono stata una Cadorin - ricordava Ida - e mio fratello Paolo, che sarebbe diventato poi un importante restauratore, un Tivoli. Io più legata a mio padre, lui a mia madre. Eravamo in affitto, perché i soldi erano pochi, nella grande casa di Fondamenta Briati. Mio padre era buonissimo, un angelo del Paradiso, ma molto testardo e io andavo fin da piccola a lavargli i pennelli nello studio e preparargli i colori. Posavo anche per lui, svestita, da angioletto, sfidando il freddo». In quella Venezia tra gli anni Venti e Trenta, dove abituali frequentatori della famiglia Cadorin erano, tra gli altri, d'Annunzio, Modigliani, Oscar Kokoshka e Mariano Fortuny, dove frequenti erano i viaggi dei genitori a Parigi, Ida e Paolo crescevano senza freni. Anche da Guido Cadorin, che allora insegnava all'Accademia di Belle Arti, parchi insegnamenti ma un imperativo categorico: «Non fate gli artisti, è una vita spaventosa». E Ida segue all'inizio il consiglio paterno, lavora nello studio dello zio Brenno Del Giudice, architetto famoso al tempo, mette a frutto la sua naturale facilità nel disegno, meditando di iscriversi ad Architettura. Fino a quando un giorno, alle Zattere: «Ci andavo da sempre sin da bambina, verso le due, in totale solitudine, a guardare l'acqua e i riflessi ma un giorno, avrò avuto diciott'anni, guardando verso lo Stucky, ho visto, sentito un'invasione d'oro e di luce, ho avuto un'illuminazione, come se vedessi tutto per la prima volta e ho sentito un'emozione grande. È allora che ho deciso di iscrivermi all'Accademia. All'inizio non sapevo cosa fare, ho iniziato con un autoritratto, chiedevo consiglio a mio padre e lui mi rispondeva: "Fai quello che vedi"».


A segnare la vita di Ida è stato l'incontro con Mušič. «Io volevo andare a Parigi e non volevo sposarmi, né avere figli. Zoran era sloveno, ma nato in Italia. L'avevo incontrato a Trieste nel '43 e lo rividi a Venezia nel dopoguerra, reduce dalla terribile esperienza dei campi di concentramento. Mi faceva molta compassione per questo, e gli cedetti parzialmente il mio studio. Glielo lasciavo al mattino, fino a quando non tornavo nel pomeriggio, dopo essere stata alle Zattere, perché non era possibile per me lavorare con accanto un altro artista. Mi mostrava i suoi quadri che, all'inizio, non mi piacevano molto. Era una pittura un po' convenzionale, di gusto ottocentesco. Fino al giorno in cui tornando in studio, vidi una grande tela inchiodata al muro, all'interno della quale - come una volta si usava - erano ricavati quadretti più piccoli. E vidi una cosa bellissima, i suoi Cavallini. “Questi devi fare! Assolutamente!”, gli dissi. Poi Malipiero gli trovò uno spazio da usare come studio e da lì cominciò». Iniziò anche la storia di Zoran e Ida - tra Parigi e Venezia - che ancora vive idealmente, nell'atmosfera senza tempo delle stanze di Palazzo Balbi Valier. Ora rimaste vuote.


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