Addio Bernardo Bertolucci l’ultimo imperatore del “cinema giovane”

È morto ieri a Roma all’’età di 77 anni Bernardo Bertolucci, il mito di ogni cinefilo in tutto il mondo, che abiti a Roma o Trieste, a New York o Los Angeles oppure a Pechino. Nato a Parma nel 1941 il grande maestro se n’è andato dopo lunga malattia. Era conosciuto in tutto il mondo. Voi direte, per film come “Ultimo tango a Parigi” o “Novecento” degli anni’70, oppure “The Dreamers” e “Io e te” degli anni Duemila. Ebbene, leggete cosa diceva nel suo discorso Martin Scorsese, presentando la retrospettiva dedicata a Bertolucci dal Lincoln Center di New York nel 1996: “L’anno dovrebbe essere il 1964. Io sono là, al New York Film Festival. Sono uno studente della Scuola di cinema della New York University. Vedo l’annuncio di ’Prima della rivoluzione’di Bernardo Bertolucci, e qualcuno mi dice ’questo non devi perderlo’. Okay, io dico, andiamo a vederlo. Sono lì seduto al buio e guardo. Vedo una composizione in bianco e nero che non avevo mai visto. Mi sento preso da un senso di entusiasmo. Ho l’impressione fortissima di essere presente a un evento, anzi a una scoperta. Ho scoperto un momento da cui nascevano poesia, bellezza, un talento di una dimensione diversa”.
Bernardo Bertolucci è stato e rimarrà a lungo, per generazioni di cineasti e cinefili, il simbolo del “cinema giovane” come forse solo Jean-Luc Godard lo è ancora. Bertolucci era anche il più importante regista italiano vivente e il più famoso al mondo. Lo era già vent’anni fa, quando vinse nove Oscar per “L’ultimo imperatore” (1997), primato per un film europeo. E quanto sia stato vivo fino all’ultimo, lo rivela il suo piccolo “Io e te” (2012), osannato a Cannes, penetrante e appassionato ritratto di due giovani d’oggi, pennellato con lo stesso amore con cui aveva tratteggiato i suoi coetanei mezzo secolo prima ne “La commare secca” (1962), film d’esordio realizzato a 22 anni, su soggetto di Pasolini che il produttore Tonino Cervi aveva acquistato, e che Bertolucci sviluppò insieme a Sergio Citti. Poeta figlio di un poeta (Attilio), allievo di un altro regista-poeta come Pasolini, di cui è aiuto-regista in “Accattone” (1961), Bertolucci è il campione e insieme il modello dei film che scavano molto nel privato, la scorciatoia più breve per arrivare a verità pubbliche. Un esempio per ogni giovane cineasta italiano dagli anni’60 in poi, in un cinema pieno zeppo di venerabili maestri molto attivi e anche ingombranti (Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini), nel quale non c’è mai stata una vera Nouvelle Vague. Regista non molto prolifico (una regia ogni tre anni), nei suoi 12 film e mezzo (“Il conformista” è tra Roma e Parigi) di ambiente italiano ha fatto i conti col proletariato romano, la borghesia di provincia, il’68, il fascismo, la droga, il terrorismo, l’immigrazione, guardando alla storia del’900 e alla realtà dell’Italia senza mai scivolare fuori dal mondo. Ha saputo mescolare le influenze di Godard con la lezione di Hollywood. Fra i suoi cardini stilistici, la luce (grazie all’amico e collaboratore Vittorio Storaro), la mobilità della cinepresa che danza nello spazio, e l’amore per gli attori che si riflette nei personaggi. Nei suoi film, come ha detto Scorsese, “anche se non capisci tutto non importa, perché misteriosamente il senso si ricompone in modo poetico, si trasmette attraverso la forza delle immagini”. —
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