Trieste, 12 giugno 1945: ottanta anni fa finiva l’occupazione jugoslava
Ricorrono 80 anni dalla fine dell’occupazione della Venezia Giulia. Il terrore alimentato da antagonismi sociali e nazionali fece migliaia di vittime

12 giugno 1945, ottant’anni fa. Le truppe jugoslave abbandonano Trieste e Gorizia e per la maggior parte degli italiani è la fine di un incubo durato 40 giorni. A prima vista, non sembrano tanti. L’occupazione nazista è durata quattordici mesi ed è stata certo assai aspra. Vista da parte slovena, l’occupazione italiana è durata più di un quarto di secolo e non è stata certo lieve. Eppure, quello provato dai triestini di sentimenti italiani è stato un trauma senza precedenti, di quelli che si conficcano nella memoria collettiva e non vogliono più saperne di andar via. Basta leggere le pagine angosciate di Pierantonio Quarantotti Gambini in “Primavera a Trieste” o quelle sconvolte di Silvio Benco nella “Contemplazione del disordine”: «Su tutto il mondo rideva in quei giorni la pace, a Trieste regnavano terrore e dolore. Mai mai, non diciamo nei vent'anni di governo fascista, ma nei cinquecento anni di dominio austriaco, nei tirannici tre anni di guerra dell’Austria morente, aveva Trieste offerto così crudele deformazione del suo volto e inversione dei suoi sentimenti».
Ecco, questo è il punto. A partire dagli anni ‘60 dell’800 Trieste si era definita, per bocca della sua classe dirigente, prima città italiana e poi città italianissima e irredenta, proiettando tale immagine anche all’indietro nei secoli e finendo per diventare il simbolo stesso dell’identità nazionale ai tempi della Grande guerra, combattuta proprio per lei e per Trento. A partire dal 1 maggio del 1945 invece, quella storia si è bruscamente interrotta e ne è cominciata un’altra ed alternativa. È la storia di Trieste polmone della Slovenia, simbolo del riscatto nazionale degli slavi del sud oppressi dal fascismo, della rivincita dello Stato jugoslavo aggredito e sbranato da Mussolini e da Hitler, della conquista del cielo da parte di una classe operaia che alla patria del risorgimento preferisce quella del socialismo. È un rovesciamento totale, di per sé sconvolgente, aggravato in misura poderosa dai modi in cui è avvenuto e cioè tramite il bagno di sangue.
Quella che si è abbattuta sul colle di San Giusto è infatti l’onda di una rivoluzione, in cui antagonismi nazionali e sociali fanno un tutt’uno. E le rivoluzioni si fanno con il terrore. Lo sanno bene le autorità comuniste jugoslave, che in tutta la Venezia Giulia hanno usato il pugno di ferro contro i loro avversari. Lo hanno fatto anche altrove, nel resto dei territori sloveni e croati appena liberati dai tedeschi, dove nelle medesime settimane la feroce liquidazione dei “nemici del popolo”, ha causato forse centomila vittime. Nelle province appartenenti all’Italia, ma che gli jugoslavi considerano già annesse alla Jugoslavia, le vittime sono alcune migliaia, in larghissima maggioranza italiane anche se non mancano alcuni sloveni e croati anticomunisti, specialmente cattolici; e questo perché è nel gruppo nazionale italiano che si concentrano gli oppositori al nuovo regime. Nella frenesia repressiva vengono assiepate persone e categorie le più diverse: squadristi, gerarchi, spie dei tedeschi, torturatori, uomini delle istituzioni dello Stato fascista, quadri del partito e delle organizzazioni di massa, membri delle forze di polizia, militari della RSI, donne che hanno sposato italiani, patrioti di vario orientamento politico ma che non vogliono l’annessione alla Jugoslavia, antifascisti non comunisti, componenti del Comitato di liberazione nazionale italiano, combattenti del Corpo volontari della libertà che hanno fatto l’insurrezione contro i tedeschi ma non si sono posti agli ordini dei comandi jugoslavi, come pure vittime di rancori personali e conflitti d’interesse.
È una violenza di Stato, decisa ai massimi livelli del regime e condotta da organi dello Stato, in primo luogo la polizia politica, l’OZNA, avendo come base la pericolosità politica dei bersagli. Per andar sul sicuro, gli arresti sono una valanga, fra Trieste e Gorizia le stime oscillano fra 12 e 15 mila. Anche se condotta in modi furtivi, l’operazione suscita il panico nella popolazione perché, dopo l’esperienza delle foibe istriane del 1943, tutti fanno l’equazione: “sparizione vuol dire uccisione”. Per fortuna non è così, perché la maggior parte dei deportati prima o poi viene rilasciata, ma alcune migliaia non ritornano, spariti nelle foibe o nei campi di prigionia, e le famiglie sono destinate a macerarsi anche per decenni nell’incertezza. Il trauma in tal modo si consolida nel ricordo e diventa uno dei pilastri delle memorie divise. Per andar oltre bisognerà arrivare, ben che vada, al 2020.
Poi, di colpo, un altro colpo di scena: gli jugoslavi si ritirano e chi prima vedeva davanti a sé soltanto un futuro di morte o di esilio rifiata, mentre chi esultava per una liberazione attesa da più di vent’anni vede di colpo svanire le sue speranze. La decisione viene da lontano ed è stata assunta dai soggetti politici cui la guerra appena conclusa ha conferito il potere decisionale esclusivo a livello internazionale e cioè le grandi potenze vincitrici, Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Sovietica. A Washington e Londra l’occupazione di Trieste da parte di Tito, dietro il quale si scorge Stalin, è stata considerata un indebito tentativo di influire sugli equilibri strategici del teatro di operazioni mediterraneo, di competenza americana; e ciò mentre i russi fanno quel che vogliono in Polonia, area di loro competenza esclusiva. Si tratta di un’asimmetria intollerabile, che può costituire un pericoloso precedente nella prospettiva del dopoguerra, tanto più che Trieste è considerata vitale per l’Occidente in ragione del suo porto, indispensabile per rifornire le truppe di occupazione alleate in Austria. Di conseguenza, ecco la prima grave crisi diplomatica del dopoguerra, la crisi di Trieste appunto, che sul terreno vede muoversi le truppe, perché l’ordine del presidente americano Truman è stato perentorio: bisogna “sbattere fuori gli jugoslavi da Trieste”.
Volano parole grosse, tanto che da parte anglo-americana il comportamento jugoslavo viene paragonato senza mezzi termini a quello dei tedeschi e dei giapponesi. Sembra già un linguaggio da guerra fredda, ma questa in realtà è ancora lontana. Anche se con qualche spintone, i protagonisti della grande alleanza antinazista desiderano ancora gestire in accordo i nuovi equilibri internazionali. Stalin non ha alcuna intenzione di rompere con gli occidentali per una questione estranea agli interessi sovietici. Gli americani non si incaponiscono a chiedere l’occupazione dell’intera Venezia Giulia, che anche a loro non interessa un bel nulla. E quindi, dal Cremlino arriva a Belgrado l’ordine di trovare un compromesso con gli alleati. Compromesso però non può che significare ritirata da Trieste e quindi gli jugoslavi riluttano, ma ordini di Mosca non si possono discutere.
Ecco dunque l’accordo, firmato a Belgrado il 9 giugno. La Venezia Giulia viene divisa in due zone di occupazione militare. La zona A viene affidata ad un Governo militare alleato e comprende Trieste e le linee di comunicazione ferroviarie e telegrafiche verso l’Austria, attraverso il Carso, la valle del Vipacco e quella dell’Isonzo. In più, alla zona A viene assegnata anche la città di Pola, con la quale peraltro le comunicazioni sicure sono solo quelle via mare. Tutto il resto della regione è zona B, affidata ad un’amministrazione militare Jugoslava. A dividere le due zone sta la “linea Morgan”, che disegna una spartizione artificiale di territori assolutamente unitari. Certo, è soltanto una soluzione provvisoria, in attesa delle decisioni della Conferenza della pace in merito al futuro confine tra Italia e Jugoslavia, ma spostare quella linea di demarcazione si rivelerà impresa improba, perché l’esito di una guerra è difficile che venga spostato se non con altre guerre. Nel cuore d’Europa nessuno si è fino ad oggi azzardato a farlo, pur scontando i prezzi, anche durissimi, delle precedenti sconfitte. Speriamo che continui così.
*Contributo dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea del Friuli Venezia Giulia
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