“After Life” anche il vedovo Tony impara che nessun uomo è un’isola

Gianmatteo Pellizzari



Prima di soffermarci sulla bellezza di “After Life”, uno dei titoli più lucenti di casa Netflix, dobbiamo subito precisare che non è una serie per anime candide: Ricky Gervais ci va giù pesante come solo i ragazzacci professionisti sanno fare. Ci va giù pesante con il cinismo, ci va giù pesante con l’umorismo nero, ci va giù pesante con il politically incorrect. Ma se la vostra sensibilità non trova sconveniente indossare il giubbotto antiproiettile, alla faccia dei neo-puritani e delle loro fissazioni, ecco allora che “After Life” vi aprirà la porta e vi permetterà di scoprire la sua vera natura. La sua profondità poetica, la sua sincera tenerezza, la sua commovente grazia sentimentale.

Ricky Gervais è un ragazzaccio, sì, e adora esserlo, adora esibirlo, adora schiaffeggiare i moralisti e i moralismi: un posto tra i giganti della stand-up comedy gli spetta di diritto (avete visto “Humanity”?). Ricky Gervais, però, non è semplicemente questo: è anche un autore venerato dal pubblico e premiato dall’establishment. Un autore di culto che, dopo “The Office” e “Derek”, ha creato “After Life” per parlarci di Tony, vedovo dell’amatissima Lisa (Kerry Godliman), e di quanto sia spigolosa la manutenzione del dolore. Di quanto sembri vuoto e stupido ogni tentativo di guardare avanti. Tre stagioni, una piccola e memorabile comunità di personaggi disfunzionali, uno script folgorante dove dramma e comicità non smettono mai di azzuffarsi…

“Nessun uomo è un’isola”, scrisse John Donne, e l’irascibile Tony, campione mondiale di misantropia, riuscirà progressivamente a capirlo e ad accettarlo. Per amore di Lisa. Un finale troppo sdolcinato? No, un finale adulto che schiva la retorica e accende (cautamente) la speranza. Un uomo, un cane, un ricordo incancellabile e, forse, un futuro che sarà gentile. —



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