Agostino Ferrente: «Napoli vista dal cellulare di due sedicenni»

Due sedicenni che si filmano con il telefonino: niente di più banale, nella vita quotidiana. E invece le loro brevi riprese, sotto la guida di un regista con alle spalle 25 anni di documentari, diventano un film straordinario: è “Selfie” di Agostino Ferrente, che questa sera sarà proiettato a ShorTS–International Film Festival nel concorso Nuove Impronte, alle 22 al Teatro Miela, dopo essere già passato allo scorso Festival di Berlino. Ferrente è stato «concepito a Udine, perché mio padre faceva il doganiere a Nova Gorica, ma poi sono nato a Cerignola. E sono napoletano d’adozione». Infatti “Selfie” ci immerge proprio nel Rione Traiano a Napoli inquadrato da due sedicenni, Alessandro e Pietro, che sono due “trasgressivi”: in un territorio difficile hanno scelto di lavorare e non di diventare delinquenti, come invece è capitato a molti coetanei. Il documentario sposa uno sguardo unico: per la prima volta i personaggi riprendono se stessi come appunto in un lungo “selfie” filmato, sono protagonisti e insieme cameraman.
Ferrente ha dato in mano ad Alessandro e Pietro il cellulare chiedendo loro di autoriprendersi descrivendo il Rione e raccontando la vicenda di un amico, Davide Bifolco, sedicenne incensurato ucciso nel 2014 da un carabiniere che l’aveva scambiato per un latitante. «Davide stava girando in motorino senza casco: un’infrazione molto diffusa al Sud, che non prevede certo la pena di morte. Eppure è stato giustiziato sul posto», dice il regista. «Quando ho letto la sua storia mi sono indignato. A poche ore dalla morte i media, giudicandolo solo sulla base del quartiere da dove proveniva, avevano già sentenziato: “ecco, un camorrista in meno”. Invece Davide non aveva fatto nulla. Volevo raccontarlo non con un film d’inchiesta, come il bellissimo “Sulla mia pelle” sul caso Cucchi, ma dal punto di vista delle persone realmente interessate. Per questo ho dato ad Alessandro e Pietro il cellulare chiedendo loro di specchiarsi per vedere il contesto dal quale provengono, il loro passato, la loro famiglia. Ma quando si fa un selfie non si vede quello che c’è davanti: è la metafora del fatto che non sanno quale futuro possono aspettarsi».
Ferrente ha guidato i ragazzi passo per passo: «Non è puro cinema di osservazione: ho creato delle situazioni, sempre partendo dalla loro esperienza reale, sperando di trasformare la loro vita in un film. Li ho diretti per aiutarli a tirare fuori quella parte di se stessi che serviva a raccontarli. La chiamo “drammaturgia sul campo”: non c’è una sceneggiatura scritta a tavolino come nel film di finzione, ma si scrive giorno per giorno sulle persone reali. Da un artificio narrativo scaturisce una storia vera».
Finanziato dalla francese Arté, coprodotto da Gianfilippo Pedote e distribuito da Istituto Luce, “Selfie” è una storia universale. «È percepito come un documentario che racconta i quartieri popolari delle grandi metropoli mondiali: è lì, purtroppo, che nasce il pregiudizio, razziale ma non solo. Così lo svantaggio di venire dal “ghetto” diventa una colpa: questi ragazzi hanno un marchio, non hanno le stesse possibilità dei quartieri migliori. I genitori spesso non hanno gli strumenti per sostenere lo studio dei figli e di conseguenza in queste zone c’è uno dei tassi di abbandono scolastico più alto d’Europa. I giovani cercano lavoro, non lo trovano, molti finiscono per spacciare. Ma non è che nei quartieri popolari le persone siano geneticamente più predisposte alla criminalità: sono le loro condizioni a spingere in questa direzione». —
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