Alba Zari alla Mostra di Venezia con la famiglia in Costa dei Barbari

La vicinanza naturale dei corpi, la libertà di abitare spontaneamente gli spazi esterni: sono parti della vita che, durante il lockdown, la pandemia ci ha strappato. Per questo commuove ritrovarle nel poetico cortometraggio “Freikörperkultur” di Alba Zari, girato in Costa dei Barbari, che il 9 settembre porterà un pezzo di Trieste alla Mostra del Cinema di Venezia, in concorso nella Settimana della Critica. Alba Zari, artista e fotografa che ha esposto le sue opere in tutta Europa, da Amsterdam a Bristol, è nata a Bangkok, abita a Londra ma è cresciuta nel capoluogo giuliano, ed è triestina anche la casa di produzione del suo corto, Slingshot Films di Manuela Buono (che al Lido porta anche “Diteggiatura” di Riccardo Giacconi, alle Giornate degli Autori). Dopo il passaggio alla Mostra, “Freikörperkultur” sarà presentato anche a Trieste e distribuito dalla Arch Film di Gorizia. La regista osserva un padre, una madre e la loro figlioletta mentre si godono placidamente l’estate sulla spiaggia naturista: un ritratto intimo, nel quale corpi nudi e natura sembrano fondersi in un movimento ipnotico, al quale fa da contrappunto il duro e bellissimo testo in dialetto bisiaco scritto e letto dall’attore Sandro Pivotti.
Alba, dove nasce l’idea del suo film?
«Sono molto interessata alle storie marginali. In Costa dei Barbari ogni estate si crea una sorta di comunità, quasi una micro società a due passi dalla città, con altri usi e gerarchie. È una sorta di mondo diverso, l’idea utopica di ricreare un’altra forma di realtà. Alcuni quasi vivono lì tra gli scogli, organizzandosi al meglio: si fanno una capanna, portano la macchina del caffè, le taniche d’acqua».
Come è riuscita a stabilire coi protagonisti l’intimità necessaria per filmarli con tanta naturalezza?
«Ho scelto una famiglia perché, in ogni comunità, è l’elemento più rappresentativo. Li ho incontrati un paio di volte prima delle riprese, c’era tra noi un patto di fiducia: sapevano che il mio approccio non è voyeuristico, non ero lì per cannibalizzarli. Ho girato in due giorni, con una macchina da presa piccola, non invasiva, chiedendo loro di far finta che non ci fossi».
Perché, dopo 10 anni nella fotografia, è passata al film?
«Ho studiato cinema al Dams a Bologna e volevo capire come funziona la macchina da presa. Sto lavorando da tempo anche su un altro documentario, “White Lies”, sulla mia storia familiare: sono nata a Bangkok ma, dagli 8 ai 18 anni, sono cresciuta a Trieste. “White Lies” è un lavoro sulla ricerca dell’identità di mio padre, che non ho mai conosciuto».
“Freikörperkultur” è stato girato nel 2019 ma ha preso forma durante il lockdown…
«Sì, nel momento in cui quell’abbraccio, quella spiaggia, quel sole, quel rapporto con la natura erano diventati impossibili. Mi chiedevo: ci sarà ancora modo di toccarci, di riprendere una fisicità? Non sappiamo come sarà il post-pandemia. Volevo creare una frattura tra le immagini, che raccontano le piccole gioie quotidiane che non possiamo più vivere nell’isolamento, e il testo. Ci tenevo fosse in bisiacco, per riflettere il territorio in cui sono cresciuta. Anche con la fotografia lavoro da sempre sull’identità e sulla ricerca di un senso di appartenenza». —
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