“Anime nere” di mafia strappano l’applauso

VENEZIA. Il primo degli italiani in concorso, Francesco Munzi, convince la critica che ha accolto con favore il suo "Anime nere", presentato ieri in Mostra.
Tratto dal libro omonimo di Gioacchino Criaco, il film, potente e composto, è un racconto corale e di genere che volge il suo sguardo alla 'ndrangheta, dove le leggi del sangue e della vendetta hanno il sopravvento portando con sé un destino segnato dalla tragedia.
Ambientato principalmente ad Africo, sulle vette dell'Aspromonte (ma abbracciando i traffici illeciti che si estendono anche a Milano, Amsterdam, fino al sud-america) "Anime nere" è la storia di tre fratelli, figli di pastori, vicini alla 'ndrangheta. Luigi (Marco Leonardi), il più giovane, è un trafficante internazionale di droga che sa fare il suo mestiere; Rocco è il volto "smart" della mafia: fa l'imprenditore riciclando soldi sporchi e vive con la moglie, la borghese Valeria (Barbora Bobulova) in un bell'appartamento di Milano; infine Luciano (Fabrizio Ferracane), il fratello maggiore, rimasto nel paese natio a occuparsi delle capre, deciso in ogni modo a evitare di rimanere schiacciato da logiche dettate dal sangue e la vendetta. Ad accendere la miccia è suo figlio Leo (Giuseppe Fumo), un ragazzo impulsivo che considera il padre come un perdente, mentre trova nello zio Rocco un ideale da inseguire. Una banale lite che mette in discussione l'onore della famiglia, lo porta a vendicarsi sparando contro la vetrina di un bar protetto dalla famiglia rivale, innescando un'inarrestabile sequenza di crimini e vendette, con un finale tutt'altro che scontato.
Se in un primo momento può sembrare di trovarsi davanti al "classico" film di mafia, "Anime nere" presenta invece diversi elementi di novità. Il regista ha trovato la formula per attualizzare il racconto mettendo insieme elementi arcaici e modernità. Passato e presente si incontrano, riti pagani convivono con la banalità e gli stereotipi del potere (e del "gangster movie") nella vita di tutti i giorni. Analogamente a quanto aveva fatto Martin Scorsese, che all'epoca di "Quei bravi ragazzi" osservava le dinamiche mafiose con sguardo antropologico e si distanziava dal modello "epico" (per es."Il Padrino") in cui la figura del boss assumeva i tratti dell'eroe, seppure in accezione negativa, anche Munzi tende a normalizzare i suoi personaggi, avvicinandoli il più possibile alla realtà, senza mitizzarli e schivando i clichè. "Volevo trovare il registro giusto - dice l'autore - guardando a loro con empatia, ma prendendone al tempo stesso le distanze. Volevamo essere critici nei loro confronti".
Buona l'accoglienza anche per "99Homes", l'altro film in concorso firmato da Ramin Bahrani, che torna a Venezia a due anni di distanza dal meno riuscito "At any price". Il regista torna a ragionare sull'America dei nostri giorni, anche nei suoi aspetti più contraddittori. Gli effetti della crisi si propagano a vista d'occhio. La disoccupazione cresce, e così anche la percentuale di chi, assieme al lavoro, perde pure la casa. "Un fenomeno globale" - secondo il regista - sul quale in molti in questi anni hanno speculato. "Ho conosciuto da vicino questa realtà durante la preparazione del film. Ho vissuto in un motel sulla Highway 142, vicino Orlando, dove abitavano tanti americani che hanno perso la loro abitazione, sfrattati perché dopo la crisi non riuscivano più a pagare i mutui". A dichiararlo è Andrew Garfield, da diversi giorni a Venezia con la fidanzata Emma Stone, e protagonista di questa storia di pignoramenti e disperazione assieme a Michael Shannon. Smessi i panni di Spiderman, ora Garfield è Dennis Nash, un operaio dalle mani d'oro che vive con la madre (Laura Dern) e la figlioletta in una villetta a schiera in Florida, sfrattato in due minuti netti in una delle prime sequenze, indimenticabile quanto indigesta. A buttarlo fuori il è l'immobiliarista Rick Carver (Michael Shannon, impeccabile "cattivo") che, in un secondo momento, intuendone le capacità lavorative, gli offre di entrare nel "giro" non proprio trasparente, per poter guadagnare e riscattare la casa. Con l'acqua alla gola, Dennis accetta di vendere l'anima al diavolo, instillando un dubbio inquietante: se si trova davanti a un plotone di esecuzione, la vittima si schiera dalla parte del suo carnefice? "È un film sociale e un "gangster movie" al tempo stesso - dice Bahrani - ho visto svuotare appartamenti in 60 secondi, senza neppure il tempo di prendere soldi e documenti. Per fortuna ci sono avvocati che si occupano di tutelare chi ne ha bisogno, ma quello che ci circonda è un mondo corrotto. Malgrado le apparenze entrambi i personaggi, sia Dennis che Carver, sono vittime di un sistema e agiscono secondo la legge della sopravvivenza in un'America che non fa credito ai perdenti. Solo i giovani possono rompere il cerchio. Bisogna pensare che un altro mondo è possibile e che film come questo sono importanti per provocare reazioni".
Ma il più acclamato di tutti, e non solo per la presenza di Owen Wilson, è stato il felice ritorno allo schermo di Peter Bogdanovich, che ha portato (purtroppo fuori concorso) la strepitosa commedia "She's funny that way" accolta con applausi a scena aperta e risate fragorose. Commedia brillante e dinamica dal ritmo serratissimo, ma anche omaggio al cinema classico (Lubitsch, Edwards, Allen) in pieno stile screwball. Nel cast, con Owen Wilson, Imogen Poots, Jennifer Aniston, Rhys Ifans, uno più bravo dell'altro.
Domani un altro italiano in corsa per il Leone: Saverio Costanzo, in anteprima con il suo film "americano" "Hungry Hearts".
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