Antonio Moresco e il sorriso ebete della nostra specie in via di estinzione
Antonio Moresco l’aveva detto che dopo “Gli Increati”, ultimo capitolo di una trilogia durata trent’anni, il libro che avrebbe scritto successivamente poteva partire solo da lì. C’è da fidarsi e non fidarsi di Moresco, probabilmente perché neppure lui può fidarsi di se stesso, dotato di una visionarietà naturale, disciplinata dalla lingua ma per niente programmata. Partendo da un atto di fede diciamo pure allora che “Il grido” (Sem, pag. 204, euro 16, da oggi in libreria) parte appunto da lì, dall’ultimo capitolo di vita, morte e increazione, presentato però come un pamphlet. Ma non è vero neppure questo. Almeno se facciamo saltare i temuti “generi”, Moresco ci trascina altrove, in un libello satirico romanzato, di invenzioni narrative. Insomma, non è un semplice saggio. D’altra parte è perfettamente coerente alla sua poetica, quando mai Moresco sta dentro il definito o definitivo? Anche se parte da una “verità” scientifica, la relazione prende ben resto altre strade e chiama in causa Houellebecq, Dostoevskij, Hawking, Freud, Leopardi e altri che diventano veri e propri profili narrativi. E in mezzo ci sta lui naturalmente, Antonio Moresco, lucidamente disobbediente ai verdetti di vari mostri sacri, in grado di andare contro anche al più amato dei filosofi, Severino.
Ma cominciamo dall’inizio. La semplice verità dell’incipit è la dichiarazione di come oramai siamo nel mezzo dell’estinzione, prove alla mano: «Sta succedendo una cosa enorme», scrive. «Le nostre sono le prime generazioni umane a vivere al cospetto di un’estinzione di specie. Tutti gli indicatori, gli studi, le commissioni, i maggiori scienziati, migliaia e migliaia di libri, milioni di altre pubblicazioni di ogni genere, di appelli ci stanno dicendo che abbiamo – come specie – i giorni contati, a causa del nostro folle comportamento su questo piccolo pianeta». Tutti gridano al fuoco, ma nessuno pare andare veramente a fondo. Il mondo va avanti come nulla fosse, la gente pare inconsapevole e forse lo è, l’informazione è calcolata e il feticcio numero uno è l’economia e in ogni caso, anche là dove pare avere più potere il popolo, c’è l’arma a doppio taglio del populismo. O la mancanza di audacia politica.
Moresco fa ruotare la prospettiva da tutti gli angoli possibili, con le solite intuizioni dialettiche che annientano ogni atomo radical chic. Per esempio: «Non si capisce perché si può dire che io, tu, lui, eccetera possiamo commettere errori e persino crimini, mentre non lo si può dire se questi singoli diventano una moltitudine ridotta a un insieme matematico e statistico».
Siamo ridotti a una società di “Cis”, così definisce quest’obbligo naturale al sorriso, dove il sorridere nelle foto pare l’unica possibilità di un ritratto degno. Pure gli artisti ormai non concepiscono altra immagine di sé: ma forse che noi osservando le antiche foto di Dickinson o Melville o Balzac vediamo le loro facce riprodotte in questo perenne ictus facciale? Condizione di specie, dice Moresco: «Se qualcuno, per farsi un’idea della natura della nostra specie, guarderà i ritratti e le foto che abbiamo lasciato, penserà che eravamo una specie perennemente felice».
E il paragrafo degli uomini “cis”, perfetto nell’affresco e affondo di un’epoca, è pure il preludio di una scrittura che inizia a dilatare le sue nervature, a immetterci nella visionarietà di una narrativa che cambia i suoi registri, pur mantenendo l’aspetto meditativo. Moresco ci trascina nei notturni di un’urbanità ambigua e solitaria, luogo ideale di banditi e intellettuali, entrambi così abili a mortificare la vita. Tra strade buie e bagni pubblici incrocia i nomi che gli stanno a cuore (da Leopardi a Dostoevskij), e anche quelli che a cuore non gli stanno, morti o vivi, sottoposti agli ossessivi quesiti del nostro su scienza, tecnologia, economia o l’ambigua condizione del femminile. Loro replicano, certo, poco persuasivi, snocciolano tentate verità, anche se la “verità” ormai pare essere un’esclusiva della filosofia che, come altre discipline, ha l’audacia di denunciare, ma non di trasformarci e migliorarci. Da qui la poca simpatia verso il mondo (distruttivo) dei vivi e l’adesione alla morte prima della vita, l’increazione appunto, dove ancora tutto è possibile. Anche sperare. —
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