Augias: «Il mio Gesù è un rivoluzionario non un predicatore»

Difficile trovare una figura più intrigante di Gesù, il rivoluzionario numero uno, colui che ha sacrificato la propria vita per un ideale, decisamente con più risultati di tutti gli altri eroi. Una storia, la sua, fin troppo creativa, raccontata nei romanzi, cantata nei musical, una storia insomma narrata mille volte, dove forse però non si è mai dato abbastanza peso alle ragioni del diritto e della politica. Ci ha provato Corrado Augias, nel suo ultimo "Le ultime diciotto ore di Gesù" (Einaudi, pag. 246, euro 20,00), che sarà presente oggi a Pordenonelegge al Teatro Verdi (ore 21). Gli episodi dei Vangeli vengono esaminati da una prospettiva storica, un'analisi che mette paradossalmente più in luce la figura centrale del cristianesimo: «La storia di Gesù viene quasi sempre raccontata con la teologia incollata sopra. La teologia funziona, per chi crede in quella fede - spiega Augias - tuttavia attenua le cose, le rende consolatorie e allo stesso tempo le nasconde. Se si riesce a ridurre questo aspetto, raccontando i fatti per quelli che furono, la storia di Gesù diventa molto più intensa».
Grazie alla dimensione narrativa, alla bellezza dei personaggi, la vicenda assume anche un tono lirico, cioè pare ci sia un'ispirazione che va al di là dei freddi motivi intellettuali.
«Non sono cattolico ma sono affascinato dalla figura di Gesù. Per un semplice motivo: quello che ha detto, lo ha fatto. La sua forza è questa. E ci ha rimesso la vita. Il punto di vista politico serve a far capire di quale entità fosse la sfida che Gesù aveva fatto sia con le autorità del Tempio, sia con le autorità romane. Essere riuscito a mettersele entrambe contro è stato fatale».
Come sono stati costruiti i protagonisti. Pilato, Claudia Procula o Lucilio, forse più affascinanti dello stesso Gesù.
«Claudia è un lavoro di fantasia. Pilato no. Su Pilato sappiamo delle cose. Era un uomo rozzo, brutale, inadatto a gestire una provincia difficile come la Giudea. Ho cercato di vedere la faccenda un po' dal punto di vista dei romani. Su ciò ha influito il fatto che io sono stato bambino quando l'Italia subiva l'occupazione nazista. Sono cose che non si dimenticano per la vita. Crescendo spesso mi chiedevo: chissà come ci vedevano? Un popolo soggetto e ribelle, però impaurito allo stesso tempo».
Una consonanza con il popolo ebraico…
«Infatti ho trasferito una parte di queste sensazione negli ebrei. È importante ricordare che in fondo i Vangeli raccontano la storia di un paese occupato militarmente, dove c'era una pesante esazione delle imposte, da cui si capisce il disprezzo nei confronti dei pubblicani, cioè degli esattori. La stessa frase di Gesù: "Date a Cesare quello che è di Cesare…" si inserisce in questa aspra contesa fiscale. Ecco allora una diversa prospettiva: raccontare le cose come non sono mai state raccontate».
Pare che il libro trattenga costantemente una lettura parallela, dai risvolti sociali direttamente legati alla nostra epoca: la questione femminile o ciò che di ambiguo viene praticato a Roma.
«Be', Roma è sempre stata così. Come insegna Carcopino, Roma è sempre stata una città mediterranea, vociferante, sporca. E poi certo anche le donne non avevano alcun diritto, neppure quello di fare testamento, potevano essere ripudiate, per non parlare di come venivano trattate in caso di adulterio. Era così ed è rimasto uguale fino al 1946, con il diritto al voto, mentre il delitto d'onore è stato abolito solo vent'anni fa».
La seduzione del testo si avvale di circostanzi reali miscelate con la fiction, cioè Gesù viene in qualche modo maggiormente colto tramite Roma e i suoi procuratori rispetto ai suoi discepoli.
«I discepoli erano della povera gente, si capisce leggendo i vangeli con occhio storico. Seguivano quest'uomo affascinante, con il pensiero che lui li avrebbe riscattati. Quando immaginano di aver scommesso su un perdente scappano come lepri. Un atteggiamento che si ripete durante tutte le occupazioni: ci siamo compromessi con un uomo che è stato arrestato, dunque è meglio fuggire».
Originale anche il fatto che Giuseppe ha maggior rilievo nella sua umanità.
«Mi fa piacere che si colga perché Giuseppe è trattato come un cane dai Vangeli, non dice una parola, la chiesa cattolica ha faticato molto a dargli una piccola dignità. Mentre quest'uomo anziano, che ha sposato una donna molto più giovane di lui, con tutti gli equivoci che si possono creare in una coppia così sbilanciata, mi ha sempre affascinato. Tanto più se pensiamo che doveva avere a che fare con questo figlio così irrequieto, ribelle, un figlio che lo spaventa, lo intimorisce, ma che ama allo stesso tempo. È una figura straziante».
Da cosa è stato coinvolto di più mentre scriveva questa storia?
«Quando feci, anni fa, un'inchiesta con il professor Pesce su Gesù, ero veramente spinto dalla curiosità di sapere chi era quest'uomo che conosciamo attraverso quattro favolette. Da quel momento, forse perché sono ormai vecchio, chissà, ho pensato molto a Gesù. Il libro nasce da questo rimpianto».
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