Bella ciao, per ridare voce alla musica dei poveri

Il nuovo progetto di Ginevra Di Marco, l’amata cantante dei Csi, questa sera dal vivo a San Vito al Tagliamento
Diu Elisa Cozzarini

"Bella ciao" è più che una canzone: così si intitolava lo spettacolo che nel 1964 a Spoleto portò per la prima volta al grande pubblico la musica popolare italiana. Dal 25 aprile di quest'anno il progetto rivive grazie a un gruppo di musicisti d'eccezione, tra cui Ginevra Di Marco, indimenticabile voce dei Csi.

Lo spettacolo fa tappa questa sera a San Vito al Tagliamento, per il Folkest.

Ginevra Di Marco, ci racconta come si è avvicinata a "Bella ciao"?

«Ho iniziato a interessarmi di musica popolare per curiosità verso quel mondo meraviglioso, che rappresenta una parte di noi, il nostro passato, le nostre radici. Nel 2006, mentre sentivo una forte esigenza di rivoluzionarmi come artista, mi sono scoperta interprete di canti popolari, prima italiani, poi anche di altre tradizioni. Da qui, è stato naturale partecipare a "Bella ciao", che è la rivisitazione di un grande evento in cui si diede dignità alla musica dei contadini, degli operai, delle mondine, ai canti di protesta della povera gente, raccolti dai più importanti etnomusicologi del tempo. Fu uno spettacolo che suscitò polemiche e fece scandalo, perché dava voce agli ultimi, denunciava il potere».

Quali sono gli elementi di novità che avete introdotto rispetto al 1964?

«Allora prevaleva l'aspetto della ricerca: era il primissimo approccio alle canzoni antiche. Noi abbiamo fatto un lavoro di arrangiamento, anche se minimale, che lo rende un vero e proprio spettacolo, ricco di intrecci, melodie, armonie anche vocali, con l'organetto di Riccardo Tesi, la chitarra, lo tzouras e l'armonium di Andrea Salvadori, le percussioni di Gigi Biolcati. E poi le voci: la mia, quella di Lucilla Galeazzi e di Elena Ledda, con l'accompagnamento di Alessio Lega».

C'è una dimensione collettiva nello spettacolo, che deriva dalla tradizione del canto popolare?

«Sì, è la parte che mi piace di più, che sottolineo anche nella mia carriera da solista. La potenza della canzone popolare sta nella sua trasversalità, nella capacità di unire persone molto diverse, perché è qualcosa che ciascuno porta con sé, richiama i ricordi di famiglia, è nel nostro dna, per questo possiede una forza catartica dirompente. La musica popolare, se affrontata con gioia e semplicità, in un clima di ascolto e coinvolgimento del pubblico, può trasformarsi davvero in una festa. Allo stesso tempo, nel nostro spettacolo c'è una dimensione meno spontanea, con un impianto teatrale che contribuisce a scaldare l'atmosfera. Ci sono momenti toccanti, in cui stai ad ascoltare e ti chiedi cos'è cambiato da allora, passaggi che fanno riflettere su quella che è stata la storia del nostro paese, sulla sofferenza e la fatica del lavoro».

Qual è il valore di queste canzoni oggi?

«Anche se arrivano dal passato e il contesto sociale e politico è cambiato, sono una testimonianza ancora forte. Sono parole che hanno urgenza di essere cantate perché i soprusi e le sofferenze nel mondo del lavoro sono molto attuali. E alcuni temi, come la guerra, le migrazioni, ci riguardano da vicino perché, nel contesto complesso come quello che stiamo vivendo, in qualche modo siamo tutti responsabili. Si sa, la musica non può cambiare il mondo ma, oltre a intrattenere e ad alleggerire le nostre giornate, può indurre a guardarsi dentro e considerare chi ci sta accanto. Mi piace pensare che possa far riflettere sulla realtà, è questo per me il valore della cultura».

Il cd è stato prodotto dal basso, con il crowdfunding...

«Sì, forse assistiamo a un nuovo modo di fare musica, in cui l'ascoltatore non è più solo quello che arriva alla fine del percorso, ma ha un ruolo attivo nella costruzione stessa del progetto. Nel nostro caso lo ha fatto con grande entusiasmo.

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