Calabresi: «Strehler è stato come un papà»

È in scena da oggi al Bobbio “Qui e ora” con Paolo Calabresi e Valerio Aprea, scritto e diretto da Mattia Torre. Domenica alle 16.30, gli altri giorni alle 20.30. «Il sodalizio con Torre nasce da “Boris”, una serie Fox di successo – spiega Calabresi –. In “Qui e ora” si ride tanto e si sta anche male. Queste due cose messe assieme fanno esplodere lo spettacolo. Sono gli ingredienti fondamentali e quando riesci a metterceli tutti e due vuol dire che hai fatto un grande lavoro di scrittura».
Se oggi la vediamo a teatro è grazie a Strehler. Come mai ha scelto la sua scuola?
«È stato casuale. Nell’86 – stavo facendo l'università – ho accompagnato un amico a fare un provino per il Piccolo Teatro di Milano. Lui è stato bocciato, io, invece, sono stato preso».
Cosa conserva di Strehler?
«La sua presenza in tutto quello che faccio. È stato come un papà, mi ha preso e mi ha detto che io dovevo fare questo lavoro. Mi ha insegnato che è un lavoro che va fatto come lo fanno i bambini quando giocano: con grande serietà, con delle regole precise da cui non puoi derogare, se deroghi sei fuori».
Il suo primo spettacolo fatto con lui?
«“Arlecchino servitore di due padroni” con Soleri».
Emergeva da Strehler la sua triestinità?
«Aveva un accento sporcato dal milanese, però aveva delle inflessioni mitteleuropee. Lui parlava sempre con nostalgia di Trieste. Aveva un legame molto forte con la mamma, una violinista importante; a palazzo Gopcevich ci sono delle lettere interessanti che Strehler le ha scritto. Ogni volta che vengo a Trieste vado al Cimitero di Sant'Anna dove lui riposa. Per me è sempre un'emozione fortissima. Lui era il teatro».
È venuto spesso a Trieste?
«L'altro anno con Maria Amelia Monti, una volta con Albertazzi e poi addirittura nel 2003 sono venuto con un'operetta, “La duchessa di Chicago”, diretta da Marco Carniti, per il Festival dell’Operetta».
Si è divertito?
«Come un pazzo. Era un bellissimo periodo, andavo al castello di Miramare e a fare il bagno. È stata un’esperienza unica».
I due personaggi di “Qui e ora” si ritrovano coinvolti in un incidente. Oggi bisogna cadere in basso per riuscire ad apprezzare le piccole cose. Come mai siamo arrivati a questo punto?
«Abbiamo perso la consapevolezza che la cosa pubblica, le strade, e per strade intendo anche le relazioni che si sviluppano, appartengono a tutti. I personaggi di “Qui e ora” sono talmente opposti da essere quasi uguali. Uno è il carnefice e l’altro è la vittima, ma alla fine i ruoli sono interscambiabili. Io interpreto uno chef di un programma radiofonico con una capacità di linguaggio spaventosa che però usa per una continua affermazione della propria superiorità sociale nei confronti del prossimo. L’altro è colui che subisce questa violenza; è la frustrazione che lo rende in qualche modo passivo. Di figure violente in tv, alla radio, ne vediamo tante. Sembra quasi che l'aggressività sia una cosa di cui andare fieri. Non c’è nessuna volontà di mettersi in relazione con la persona che ti sta davanti».
Siamo noi i colpevoli di questo senso di frustrazione e solitudine che ci avvolge oppure è il sistema che funziona così e noi ne veniamo travolti?
«Siamo le vittime di un sistema che abbiamo creato. Siamo noi i padroni del nostro destino, ma abbiamo perso la coscienza di esserlo. È come se tutto dipendesse dagli altri».
Il consiglio che dà al pubblico?
«Quello di vivere “Qui e ora”».
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