Cara Anita, caro Bobi le lettere ritrovate sulla Trieste malefica

Un epistolario scoperto dal libraio Simone Volpato racconta la collaborazione fra Pittoni e Bazlen
Di Pietro Spirito

di PIETRO SPIRITO

C’è Trieste, naturalmente, «città con l’anima cattiva», «piena di grovigli e malintesi». C’è Umberto Saba, «che oramai non ha più nulla da dire», poeta «che ha fatto della malattia il suo monumento ed anche un terribile meccanismo per creare negli altri dipendenza affettiva e amorosa», e che «brucia tutto quanto di bello si avvicina per una grande gelosia innata e disturbante». E c’è Italo Svevo, «un finto malato tutti credevano ammalato e sempre sul punto di non ritorno, la salute invece abbondava e si schiudeva ogni giorno».

È un piccolo, grande spaccato della Trieste letteraria del secondo Novecento l’epistolario inedito tra Bobi Bazlen - leggendaria figura di editor, fondatore dell’Adelphi nonché amico e mentore, fra gli altri, dello stesso Svevo, di Montale, Foà, Olivetti - e Anita Pittoni - editrice, scrittrice e designer che ha lasciato un segno profondo nella storia della letteratura triestina. Si tratta di dieci lettere - tre minute inviate dalla Pittoni a Bazlen, e sette originali firmati spediti da Bazlen alla Pittoni - che vanno dal 23 novenbre 1949 al 20 febbraio 1953 - recentemente scoperte dal libraio antiquario Simone Volpato in uno degli scatoloni del vasto archivio della Pittoni in buona parte e a più riprese recuperato dallo stesso Volpato. Le lettere ora sono state acquistate in blocco dallo scrittore, giornalista e opinionista Giampiero Mughini, uno dei maggiori bibliofili italiani specializzati in letteratura italiana del Novecento, che a Trieste e ai suoi scrittori ha dedicato il libro “In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il ’caso’ Svevo” (Bompiani, 2011).

«Prima di scrivere il libro non conoscevo bene Trieste - spiega Mughini -, poi ho scoperto la sua cultura, la sua letteratura e da allora per me Trieste è diventata un luogo dell'anima». «Queste lettere - continua lo scrittore - sono straordinarie anche perché parlano di un personaggio come Bobi Bazlen, che ha fatto la storia dell'editoria italiana. Amo e colleziono la letteratura italiana del Novecento, per cui figuriamoci come considero questo epistolario…sono lettere succulente, appetitose, svelano dettagli di personaggi e di una cultura che amo».

E appetitose le dieci lettere lo sono di certo, in quanto illuminano uno dei momenti più significativi della cultura triestina del dopoguerra. È il momento in cui Anita Pittoni vara Lo Zibaldone, casa editrice - anche questa destinata a entrare nella storia della letteratura italiana - che pubblica autori triestini contemporanei, da Budigna a Grisancich, Giotti, Saba, Kezich, la stessa Pittoni.

Il 23 novembre 1949, su carta intestata dell’editrice, Anita Pittoni scrive entusiasta e piena di ottimismo a Bobi Bazlen, allora Roma, per annunciargli l’iniziativa: «Caro Bazlen, habemus lo Zibaldone, la più importante casa editrice italiana con sede nella città più periferica dell’ex impero; mi sono buttata in questa avventura con pochi compagni audaci che non temono naufragi e collisioni. (...) Ti aspettiamo come mozzo, come timoniere, co. me conoscitore dei venti nella nostra casa editrice: aspettiamo consigli o silenzi, qualche scritto o un messaggio in bottiglia».

E il messaggio arriva il 2 dicembre, in una lettera in cui Bazlen ghiaccia ogni entusiasmo: «Carissima Anita, a forza mi faccio tentare dal tuo disperato progetto - una casa editrice nuova, per giunta nella malefica Trieste, dal nome esotico Lo Zibaldone (avranno fegato di mangiare aspri cibi i tuoi concittadini?) (...)». Amareggiato («ormai tutto mi è diventato nemico che non riesco o voglio trovare amici»), Bazlen dissuade Anita dal «produrre misera letteratura triestina (ma ha una sua qualità? Certo molta è la quantità ma poca la seta)», invitandola piuttosto a tradurre o ritradurre autori della più genuina Mitteleuropa come Schnitzler, Trakl, Daubler, «molto Rilke-Heine-Grillparzer». Anita risponde che da sola non può sostenere un programma così impegnativo di traduzioni, e Bazlen la blandisce, elogiando il suo salotto letterario, dove «si danno convegno poeti affamati di letture e forse di cibo», in uno consesso che pure lo ha «costretto, non troppo controvoglia, a fuggire come fossi colpito da un esilio da Trieste».

La corrispondenza continua, con uno scambio di consigli e libri (lei manda copie di titoli dello Zibaldone, Bazlen risponde inviando il “Manoscritto” di Sebastiano Carpi, Einaudi 1948, in cui compare come personaggio), mentre sotto le sferzate di Bazlen il tono delle missive Anita si fa via via più mesto. «Caro Bobi - scrive la Pittoni il 3 luglio 1950 - ti ho spedito i volume “Vita di mio marito Svevo” scritto da sua moglie Livia: cerca di essere giusto nel giudizio almeno nei miei confronti». Macché, il 22 luglio Bobi Bazlen risponde secco: «Cara Anita, in Svevo abitano tante persone spesso in lotta tra di loro e questa Vita invece ci offre un ritratto, parzialissimo e invadente, di Livia, che di buono ha solo i ricordi ma non la capacità di renderli vivi». «Un giorno - continua Bazlen - renderò giustizia della fortuna e della sfortuna di Svevo, parlerò di Villa Veneziani, clinica psichiatrica di grande livello, parlerò di Joyce e del brutto influsso (forse cattivo ma utilissimo influsso), parlerò di come Svevo mi guardasse come fossi un personaggio di Verne...ecco perché il tuo libro mi crea tristezza». Eppure proprio a Svevo sono riservate le parole più cariche di passione, quando Bazlen ricorda «quegli attimi in cui da giovane mi sedevo, così si dice, sulle sue spalle e guardavo il mondo oltre Trieste»: «Penso che Svevo - nota ancora Bazlen - sarà solo in futuro un autore irrinunciabile; penso che tutti un giorno, senza saperlo, saranno costretti a seguire i suoi passi e a perdersi per poi ritrovarsi, diversi e spaesati (ma la vera letteratura si consuma nella perdita del proprio centro psichico)».

L’attenzione si posa poi su Umberto Saba, quando Anita Pittoni invia a Bazlen quello che definisce il suo «capolavoro editoriale», la pubblicazione nello Zibaldone di “Uccelli”. «È stato estenuante - racconta Anita il 5 novembre 1950 - poter avere il suo nome nel mio catalogo: di giorno Saba è un mercante levantino che starebbe attento a darti una goccia di sangue, di pomeriggio è un libraio sempre levantino e di notte, per fortuna, un poeta». Anita ancora una volta implora un giudizio «meno duro», ma Bazlen non dà scampo: «Dopo Svevo maior ecco Saba minor». Perché «Uccelli sono un miracolo per la vena esausta di Saba», un tempo ammirato da Bazlen per «quella cortese gentilezza mista ad una misura d’animo che solo in Montale e in Penna ritrovo», ma ora considerato un uomo che «ciò che tocca - anche fisicamente - rovina in modo irrecuperabile (la stessa sua libreria è una sorta di ospedale per malati di nervi mentre un tempo era una Parnaso di genio)». Non tutti i giudizi, però, sono negativi. Oltre a Svevo, Bazlen ricorda con grande affetto Giotti: «è portentoso nella sua fragilità e malinconia: guarda tutto con falso distacco, rende l’anima delle cose inanimate e offre di Trieste un’immagine di città febbrile e sempre sul punto di precipitare in un dramma, ma poi basta un po’ di vento e tutto s’addolcisce».

Schermaglie, critiche ma anche elogi sinceri nelle lettere fra Anita Pittoni e Bobi Bazlen, dove quest’ultimo giganteggia come un maestro nei confronti della sua allieva. Un maestro costretto dal demone della letteratura a scelte radicali («sto fermo nella stanza, rimetto a posto libri e carte, tento di scrivere dei propositi») e che conclude l’epistolario il 20 febbraio del ’53 con l’ultima, amara nota: «lavoro da sentirmi male, eppur continuo a vivere».

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