Carlo Mazzacurati e il film grandi divi mai girato a Trieste

di Beatrice Fiorentino
Entra nel vivo l’edizione 33 del Premio Amidei, che oggi alle 18.30, al Kinemax di Gorizia, regalerà uno dei momenti più emozionanti, grazie alla presenza di Claudio Piersanti, scrittore, sceneggiatore e amico di Carlo Mazzacurati, alla cui memoria è intitolata l’edizione. Alla tavola rotonda “Avventure di frontiera. Il cinema di Carlo Mazzacurati” siederanno molti collaboratori del regista padovano: Francesco Bruni e Massimo Gaudioso, Doriana Leondeff ed Enzo Monteleone, Marco Pettenello e Claudio Piersanti, confluiti tutti per un omaggio all’amico scomparso in gennaio, portando il ricordo di esperienze comuni e scandagliando il suo cinema attraverso i luoghi, i personaggi e i temi a lui più cari. Claudio Piersanti anticipa qualcosa della sua personale esperienza nel cinema, quell’avventura che nella sua mente si identifica soprattutto con Mazzacurati. Il primo tra i suoi ricordi, che riaffiora forse smosso dal ritorno in Friuli Venezia Giulia, riguarda un progetto legato a Trieste, purtroppo mai portato a termine e destinato a restare chiuso in cassetto per l’ottusità di qualche produttore scettico, che si è rifiutato di investire del denaro in un qualcosa che, a suo dire, era pensato per “du vecchi”.
«Gli anziani protagonisti avrebbero dovuto essere Marcello Mastroianni e Virna Lisi - racconta Piersanti- lo dico senza usare vittimismo, la storia del cinema è piena di film mai realizzati, capita. Ma questo progetto è particolare perché legato all’amore che Carlo aveva per Trieste e per la regione in generale, dove siamo venuti spessissimo a passeggiare. Succedeva qualche anno prima della scomparsa di Mastroianni, nei primi anni ’90, questo avrebbe dovuto essere il suo ultimo film. Lui e Carlo si erano incontrati diverse volte, Marcello aveva letto quello che avevamo scritto e proprio poco prima di morire, tra i suoi ultimi pensieri, aveva confessato il suo rammarico per non aver potuto girare “quel film sull’alpino a Trieste”. Era un progetto che sentivano moltissimo entrambi, davvero un’occasione mancata. Ho un ricordo pieno di suggestioni: molta neve, una trama dolente che girava attorno alla figura di questo ex alpino a fare i conti con le sue nevrosi, una storia drammatica ma con grandi aperture naturali. Infatti eravamo andati a visitare molti luoghi, salendo sopra Trieste. Siamo stati in Carso dove avrebbe dovuto cominciare il film. I due protagonisti abitavano in una casa di estrema periferia in cima alla città. Poi la storia si perdeva nella neve, si mescolava alla memoria della guerra in Russia. Questo è il ricordo più dolente che conservo tra i progetti che abbiamo condiviso».
Questo succedeva nei primi anni ’90. “Il toro” è del ’94 ed è stato girato in parte in Carso, così come “Vesna”, del ’96, che vive le sue prime esperienze italiane a Trieste. I sopralluoghi non sono andati a vuoto…
«Sicuramente! Infatti ci siamo tornati. Carlo era affascinato dai confini, dai luoghi di passo che sono anche luoghi di trasformazione. Sentiva molti. ssimo il fascino della frontiera».
E qual è invece il ricordo più bello?
«“L’estate di Davide”. Una piccola produzione destinata alla tivù che poi fu mandata a orari impossibili. Una volta incrociai un funzionario in un corridoio di viale Mazzini e mi disse: “Eh, mi ricordo quella volta, quando tu e Mazzacurati mi avete dato questo film che avrebbe dovuto essere d’avventura e invece avete fatto un film alla Antonioni…”. Ovviamente per noi fu un complimento. Gli ho risposto che speravo di essere all’altezza del suo insulto (ride). Ma il ricordo positivo è legato alla realizzazione, proprio al lavoro di sceneggiatura. Avevamo per protagonisti due ragazzi, attori non professionisti, e un paesaggio a disposizione che erano le foci del Po, un luogo dell’anima per Carlo, dove ha ambientato diversi film. Per noi davvero rappresentava la voglia d’avventura, nel senso più nobile del termine, da lettori di Stevenson. Abbiamo usato una scrittura molto libera e insolita, totalmente cinematografica anche se era destinato alla tv. Il momento cruciale è stato quello in cui ci siamo resi conto che i nostri dialoghi avrebbero potuto essere recitati solo da attori esperti. Abbiamo fermato le riprese e alle tre e mezza di notte, davanti a una birra e tra le zanzare, ci siamo messi a riscrivere cucendo le battute addosso agli interpreti, basandoci sul loro vissuto, che infatti a quel punto hanno recitato come dei veri attori».
Com’è nata la sua collaborazione con Mazzacurati?
«Ci ha fatti conoscere Marco Lodoli. Lui aveva letto alcuni miei libri e io avevo visto i suoi primi film. Abbiamo scoperto di avere molti interessi e gusti in comune. La letteratura russa, per esempio. Io facevo un altro lavoro, più che scrivere facevo il dirigente d’azienda e quindi la prima storia che mi propose (Il Toro, ndr) non la scrissi. Cominciai con “Vesna”. Con un pizzico di pazzia mi misi a fare, tardivamente, lo sceneggiatore».
Il suo merito più grande?
«In anni di declino del cinema, Carlo è riuscito a riportare l’autore al centro del discorso. Ha reso possibile per una decina di suoi colleghi un persorso autoriale che altrimenti sarebbe stato bloccato. Per i primi anni è andato avanti da solo, aiutato solo da Nanni Moretti e Angelo Barbagallo che gli hanno dato fiducia. In fondo ha avuto fiducia dalle persone che di cinema capivano. Lui per questo si sentiva una persona fortunata».
Che metodo usavate per scrivere? C’era una gerarchia?
«Era una persona molto “sociale”, credeva nello stare insieme. I personaggi dovevano crescere, non c’erano mai pure invenzioni di trama ma un approfondimento della realtà, con persone autentiche. Le storie nascevano spesso in campagna o al mare, in Maremma. Lì abbiamo scritto molti film, andando al mare o passeggiando. Carlo aveva sempre in mente non meno di una decina di film, le storie sorgevano in lui in continuazione. Era un mattiniero e un po’ insonne e quindi aveva sempre un vantaggio in termini di ore. Aveva la capacità di memorizzare le storie e a un certo punto vedeva il film con una capacità di dettaglio straordinaria».
Sceneggiatura blindata o flessibile?
«Era un lavoratore diligente, non si presentava mai su un set senza un copione convincente. Ma sapeva adattarsi alla realtà, sfruttando anche gli imprevisti. Ricordo la scena finale di “Vesna”, storia estiva che si conclude con la corsa della ragazza, forse già morta, in una abbondante nevicata. Era l’ultimo giorno di lavorazione, e improvvisamente cominciò a nevicare… Carlo accettò il fatto e anzi lo accentuò. C’è neve? Bene, allora prendiamo molta neve! In sede critica poi si è dibattuto molto su questa particolare “scelta di regia”».
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