C’è Francesco Piu a Hot in the City «Porto i suoni elettrici di Peace & Groove»

l’intervista trieste Registrare nella stessa sala, piena di vibrazioni, di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, è stata un’emozione. «Sono cose che fai una volta nella vita e ti rimangono...

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Registrare nella stessa sala, piena di vibrazioni, di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, è stata un’emozione. «Sono cose che fai una volta nella vita e ti rimangono per sempre». Il bluesman Francesco Piu ricorda così la sua esperienza al leggendario Sun Studio di Memphis. Il cantante e chitarrista sardo, nome di punta del rock blues nostrano, ha già fatto tappa a Trieste: «Una bella città di incroci e di culture – dice –, sono rimasto colpito l’anno scorso, quando ho suonato al Trieste Calling The Boss». Ritorna domani alle 21.20 in piazza Verdi per la rassegna “Hot in The City”; alle 20.30 i chitarristi triestini 40 Fingers Guitar Quartet (Brenci, Grafitti, Vittori, Steffè) presentano il loro nuovo album.

La volta scorsa si era esibito in trio acustico, in piazza Verdi cosa propone?

«Porto- risponde Piu - una formazione più elettrica che riproduce un po’ i suoni del mio disco “Peace & Groove” del 2016: chitarra, Hammond, basso e batteria, un assetto da band».

Ha all’attivo sei album, l’ultimo “The Cann O’now Sessions” uscito ad aprile.

«Ci siamo riuniti con un gruppo di nove elementi (di cui quattro coriste) in una tenuta vicino Alghero in cui vengono prodotti vino e olio, abbiamo registrato, mangiato e bevuto in questo casolare, in una giornata meravigliosa di condivisione di tante cose tra cui alla fine anche la produzione di un disco».

Suona tanto all’estero. E l’Italia?

«Il mese scorso abbiamo girato tra Francia, Inghilterra, Repubblica Ceca. Si ha a che fare con un pubblico che ha un approccio diverso, fuori si vive la musica in un’altra maniera, la gente è molto più disinibita: ballano e interagiscono dall’inizio, qua si fa un po’ più fatica a rompere il ghiaccio. Purtroppo le nuove generazioni si stanno disabituando ad avere la curiosità di andare a vedere un concerto, mi sembra tutto più omologato. Io sono dell’81, non di una generazione così lontana, eppure avevo una sete di dischi e di concerti che ora mi sembra non ci sia più nei giovani. Si ha tutto a portata, le chiavette usb piene di musica e Spotify ma magari non si ha fame, una volta potevi permetterti un solo disco ma lo divoravi. Questo cambio di tendenza in Italia lo si sente molto più che all’estero».

Ha aperto i concerti per grandi artisti, chi ricorda in particolare?

«Quando ho cominciato a cimentarmi con la chitarra, il disco “Jazz blues fusion” di John Mayall – che apparteneva a mio padre – è stato fondamentale, è stata quindi una soddisfazione suonare prima di lui e tornare a casa con quel vinile autografato. Ho aperto per (e suonato con) Eric Bibb: in seguito mi ha prodotto un disco, ho lavorato con lui in studio ed è stata un’esperienza formativa pazzesca, mi ha fatto crescere tantissimo. E ho scoperto che Tommy Emmanuel, uno dei miei miti da sempre, è una persona umilissima, semplice come solo i più grandi sanno essere e questo mi ha arricchito tanto quanto condividere il palco con lui. Bello dal punto di vista musicale e umano, ma è stato così con la maggior parte degli artisti leggendari che ho avuto la fortuna di incrociare». —





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