Con “Loro” alla corte di Silvio

Sorrentino resta in superficie raccontando la prima parte della vita di Berlusconi

Il limite, quando si tratta di esaminare un film distribuito “a pezzi”, è che le considerazioni possono parzialmente cambiare di fronte alla completezza dell’opera. Precisazione ovvia ma doverosa all’ora di accostarsi al nuovo lungometraggio di Paolo Sorrentino, “Loro”, in sala la prima parte, mentre si dovrà attendere il prossimo 10 maggio per vederne la conclusione. Le intenzioni però sono chiare e un primo giudizio può essere ampiamente tracciato. Partendo dalla citazione di Giorgio Manganelli che apre il film come un’esplicita dichiarazione d’intenti: “Tutto documentato, tutto arbitrario”, a voler sottolineare il corto circuito verità-finzione che il regista premio Oscar mette in atto trasfigurando la materia di cronaca in un racconto vicino più che altro alla commedia, attraversato, come quasi tutti i suoi film, da note grottesche e simboliche. Tutto documentato: personaggi che compaiono agli atti dei processi che negli anni hanno investito loschi faccendieri e donne compiacenti a servizio di sua maestà Silvio Berlusconi. Ecco chi sono “Loro”, la corte dei miracoli, escort e papponi, nani e ballerine, di cui Sorrentino omette le generalità e mescola i tratti, ma lascia comunque riconoscibili: Sergio Morra/Riccardo Scamarcio è “Gianpi” Gianpaolo Tarantini, Kira/Kasia Smutniak è Sabina Began “L’ape Regina”, Santino Recchia/Fabrizio Bentivoglio è Sandro Bondi, poi ci sono Lele Mora, Apicella, Veronica Lario (Elena Sofia Ricci), infelice, che cerca conforto nelle pagine di Saramago. Tutto vero. Tutto falso. Perché la verità per “Lui”, Silvio, quasi assente in questa prima parte del film, non conta, come si evince dal siparietto in cui Berlusconi/Servillo insegna al nipotino a rendere la verità opinabile per il proprio tornaconto personale. Ma conta poco anche per il regista, non tanto interessato a raccontare i fatti, a entrare nelle stanze del potere, a scrutare il fascino luciferino di uomo dato mille volte per morto e mille volte risorto (come invece era riuscito a fare ne “Il Divo”), quanto a mettersi in mostra, a colpire di “stile”, di effetto, preoccupato, ancora una volta, soprattutto di piacere. Così la rappresentazione resta in superficie, non provoca, non scuote. Semmai un po’ diverte, restando però sostanzialmente innocua anche quando vorrebbe eccedere. Visionario? Relativamente. Il regista-vampiro si conferma abile manipolatore appropriandosi di scenari e immagini altrui senza tuttavia riuscire a elaborarli in una cifra stilistica originale. Se un tempo il modello era soprattutto Fellini, ora vorrebbe essere Scorsese, Buñuel, Korine. La pecora in casa come ne “L’angelo sterminatore”, due situazioni domestiche tra piste di coca, zoom e le note di Harry Nilsson fanno spudoratamente il verso ai “Goodfellas”, la festa a Villa Morena bordo piscina arraffa indiscriminatamente da “Spring Breakers” e “The Wolf of Wall Street”. Al netto di qualche sequenza più riuscita (la sauna con prestazione sessuale a un vecchio misterioso chiamato “Dio”) e l’innegabile capacità di pensare il cinema “in grande”, Sorrentino rimane un regista talentuoso e inconsistente, distante dal grande autore che invece pretende di essere. Meno situazionista e più narrativo di un tempo (più “The Young Pope”, che “La Grande Bellezza”), insegue coerentemente il trash, ossessionato, come l’ex cavaliere, qui più barzellettiere che “caimano”, dalla volgarità cafona che li accomuna: la tv, Mike Bongiorno, il Bagaglino, le canzoncine, tette e culi per ogni occasione e un ampio spettro di trivialità come antidoto all’horror vacui o elisir d’eterna giovinezza. Il problema, nel caso specifico, è che la verità, la realtà documentata, la cronaca, superano sempre di gran lunga la fantasia.

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