Così il friulano Giulio Camillo stregò il ’500 con un sogno

Il progetto di un Teatro della memoria, celebrato dalla Biennale di Venezia nel 2013 riprende forma adesso in un volume di suoi scritti pubblicato da Adelphi
Di Alessandro Mezzena Lona

Ai potenti del suo tempo, Giulio Camillo chiedeva un solo dono. Quello di poter realizzare il suo Teatro della memoria. Ci aveva provato con Francesco primo, re di Francia, e con Alfonso d’Avalos, governatore spagnolo di Milano. Ma il progetto era rimasto a livello di sogno. Avvolto nel mistero dei suoi studi filosofici venati di magia, di conoscenze alchemiche. Perché in quel friulano, che era conosciuto nel primo ’500 come Dalminio e si era formato tra Venezia e Padova, convivevano neoplatonismo ed ermetismo, la lezione di Raimondo Lullo e quella dei più illuminati astrologhi e cabalisti.

Cos’era il Teatro della memoria? Difficile dirlo, anche perché qualcuno sostiene che Giulio Camillo pensasse a un’ardita architettura dove potesse entrare una sola persona. Qualcun’altro parla di una grande scacchiera che, grazie al movimento e alla combinazione delle sue componenti, generasse nuovi significati e nuovo sapere. Una mente artificiale che, ricordando con lucida perfezione, si avvicinasse all’idea di ricreare il mondo.

Ma chi era per davvero il friulano di Portogruaro Giulio Camillo, l’umanista che Lodovico Ariosto inserì nell’ultimo canto dell’«Orlando furioso» tra la schiera di lettori ideali della sua opera? Facendo infuriare Niccolò Machiavelli, rimasto clamorosamente escluso. Lo racconta Lina Bolzoni nel documentatissimo saggio introduttivo a “L’idea del theatro”, pubblicato da Adelphi (pagg. 342, euro 70) nella splendida collana dei Classici, che raccoglie “L’idea dell’eloquenza” e il “De transmutatione”, con altri frammenti inediti.

Un fatto è certo: la figura di Giulio Camillo non lasciava indifferenti. Se personaggi come Erasmo da Rotterdam lo guardavano con sospetto, e il letterato francese Étienne Dolet lo trattava da ciarlatano, al contrario Ludovico Castelvetro lo tallonava con un misto di interesse e di dispettoso distacco. Del resto, un personaggio come lui non passava inosservato. Basso di statura, corpulento, incapace di governare la balbuzie, vinceva i suoi difetti ammantandosi di un’aura di mistero.

Un fascino che resiste ancora oggi. Se è vero che la Biennale Arte di Venezia. nell’edizione del 2013, ha unito il Teatro di Giulio Camillo al Palazzo enciclopedico del sapere disegnato negli anni ’50 del ’900 da Marino Auriti, emigrato dall’Italia in America, e alle cattedrali, agli edifici simbolici elaborati da Achilles Rizzoli in California. Simboli di un sapere arcano che annulla lo scorrere del tempo.

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