Così il pacifista Svevo sognò il modo migliore per evitare ogni guerra

di RICCARDO CEPACH «L'affare disastroso in cui mi precipitai dipese certamente dalla mancanza di sensibilità mia, credevo cioè che continuasse la guerra mentre sapevo ch'era scoppiata la pace». È il...
Di Riccardo Cepach

di RICCARDO CEPACH

«L'affare disastroso in cui mi precipitai dipese certamente dalla mancanza di sensibilità mia, credevo cioè che continuasse la guerra mentre sapevo ch'era scoppiata la pace». È il paradossale lamento di Zeno, che in “Un contratto”, che è uno dei frammenti del progettato, incompiuto "quarto romanzo" di Svevo, prosegue da vegliardo il resoconto delle sue avventure dopo la conclusione della sua Coscienza. Ci sta dicendo, insomma, che il suo magico istante di successo negli affari e fiducia nel futuro - in una sola parola sveviana, "salute" - era durato soltanto quanto era durata la guerra ed era svanito con essa. La sua disinvolta - cinica è la parola - capacità di sfruttare per i suoi lucrosi affari la penuria di materie prime dovuta al conflitto perde di efficacia al riaprirsi delle frontiere e dei commerci e Zeno, da trionfante squalo, ritorna alla consueta dimensione di sardina.

Come suggeriva ancora diversi anni fa lo svevista inglese Brian Moloney, la Coscienza di Zeno è anche un «romanzo di guerra». Non perché vi si parla di divise, trincee, fango, armi e carneficine, ma perché è la guerra che offre a Zeno un nuovo orizzonte di senso e la possibilità di mettere a frutto le sue peculiari "virtù". Non è l'unico caso: negli scritti di Svevo, a partire dal 1915, la guerra è una presenza quasi costante. Sono ambientati durante il conflitto alcuni interessanti frammenti (Una bella giornata d'inverno e Trommelfeuer, in cui mostra il giovane tedesco Arthur Meyer, figlio di Heinrich, direttore della Ferriera di Servola, in partenza per il fronte felice di aver trovato il modo di evitare gli esami scolastici) e diverse novelle: Una burla riuscita e La novella del buon vecchio e la bella fanciulla. In quest'ultima, in particolare, il rombo delle artiglierie dalla sommità dell'Hermada raggiunge la città disturbando i sonni del tutt'altro che buon vecchio che, dopo aver sedotto la bella fanciulla, è impegnato nella stesura di un espiatorio trattato sui “Rapporti tra vecchiaia e gioventù”. Al netto della feroce ironia che l'autore riversa sull'anziano seduttore, la vicenda sembra quasi una miniatura della condizione dello stesso Svevo durante la guerra quando, rimasto unico gerente del colorificio Veneziani dopo che il suocero Gioacchino, "regnicolo", ha lasciato la città, si ritrova infine disoccupato quando l'autorità austriaca fa chiudere la fabbrica, e si dà alla stesura di un trattato sul tema della pace.

È certo un episodio marginale della sua biografia e un testo minore della sua produzione, eppure, negli ultimi anni della sua vita quando, dopo il successo del suo terzo romanzo, Svevo si trova a raccontare la sua esperienza, non dimentica mai di citarlo, dichiarando sempre di aver intrapreso in quegli anni «un'opera quasi letteraria, un progetto di pace universale» che in seguito aveva distrutto. Fra le sue carte, tuttavia, qualcosa era rimasto: un dattiloscritto di dodici pagine dedicato a un tema peculiare del pacifismo di quegli anni, la creazione di una Lega delle Nazioni che, nelle intenzioni dei promotori - primo fra . tutti il presidente americano Wilson - avrebbe dovuto impedire, nel futuro, il ripetersi di un bagno di sangue come quello che si era appena concluso. Il saggio è stato più volte ristampato, nelle edizioni delle opere sveviane, con il titolo “Sulla teoria della pace”, che tuttavia non era il titolo voluto dall'autore il quale, al contrario, l'aveva intitolato di suo pugno “La Lega della Nazioni”, appunto (e con questo titolo il Museo Sveviano lo dà ora alle stampe, in una nuova edizione critica curata da Silvia Buttò e da chi scrive queste note). Non dunque un ambizioso lavoro sulle condizioni di possibilità di una duratura "pace universale", ma un più modesto - ma assai più puntuale - studio sulla costruzione dell'organismo internazionale che era al centro dell'agenda politica internazionale.

In esso, a ogni modo, Svevo dimostra di aver assai ben approfondito il tema del pacifismo, mettendo a confronto, esplicitamente o implicitamente, le principali opinioni e linee di pensiero a partire dalla Monarchia di Dante, «padre di ogni letteratura», per proseguire con la riflessione di Kant, gli interventi di Victor Hugo, di Tolstoj e naturalmente dello stesso Freud. E dovendo applicarsi a un problema concreto e attuale, Svevo approfondisce e confronta anche le voci dei pacifisti della sua epoca, dai socialisti ai liberali, come il premio Nobel austriaco Alfred Fried e il tedesco Walther Schücking, cui dichiara esplicitamente di rifarsi. Sì, perché se di entrambi i movimenti, socialista e liberale, non gli sfuggono compromessi e contraddizioni - prima fra tutte la squalificante distinzione, da tutti operata, fra guerre utili e dannose - è certo che a questa altezza Svevo ha da tempo abbandonato il suo tiepido socialismo giovanile e proprio in questo scritto si dichiara con inusitata chiarezza "liberista".

Del pacifismo liberale Svevo incarna il meglio. Guarda al problema della pace con pragmatismo e disincanto e suggerisce di estendere al campo internazionale i principali istituti del diritto privato, in modo da rendere la proprietà dei territori fluida, passibile di trasferimento commerciale, in modo da eliminare il pericoloso, e falso, principio della legittimità (che, ricorda, deriva sempre da una guerra precedente). Affronta le maggiori difficoltà - come quella di conciliare pacifismo e darwinismo salvaguardando il valore evolutivo della lotta per la vita - senza nasconderle e, in generale, non si tira mai indietro quando gli pare necessario ammettere un punto debole della sua teoria. Non è strano, pertanto, che il saggio si concluda con alcune timide proposte sulla cui applicabilità lo stesso autore sembra in dubbio. Il pessimismo dell'intelligenza è sempre assai più sviluppato in Svevo del passeggero ottimismo della volontà. L'uomo gli appare un «malcontento, tristo animale guerresco» che, bene che vada, può essere fatto convivere «in una guerra dall'aspetto di pace», e questo è tutto. Il saggio sulla Lega delle Nazioni viene messo da parte e ripudiato. Pochi giorni più tardi Svevo incomincia un romanzo su un inetto di successo di nome Zeno, che dalla guerra ha tutto da guadagnare e che, nella pagina conclusiva, dichiara che l'unica pace universale in cui l'uomo può sperare è quella successiva alla definitiva catastrofe, quando un «esplosivo incomparabile» distruggerà la terra e tutti i suoi abitanti.

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