Da Trieste a blogger in Cina

Antonella Moretti si racconta in “Prezzemolo e cilantro” oggi ai Canottieri Adria
Di Annalisa Perini

di ANNALISA PERINI

Un giorno sei in Italia, credi di sapere chi sei, non solo dove sei. Poi, non proprio l'indomani, ma quasi, ti ritrovi in Cina, con la sfida di reggere una fase di passaggio che non sai dove ti condurrà. Anche se hai seguito tuo marito, non hai problemi economici e non sei sola, il viaggio in questa nuova esperienza sarà comunque il tuo, prima di tutto, nella tua identità.

Con il romanzo "Prezzemolo e cilantro-Storie di donne italiane in Cina", che viene presentato oggi alle 18.30 alla Società Canottieri Adria, in collaborazione con "Irreale-narrativa km 0", e venerdì alla stessa ora al Caffè San Marco, con "Rete D.P.I.", la triestina Antonella Moretti attraverso un racconto corale al femminile ha preso spunto dalla propria esperienza per illustrare i chiaroscuri delle «donne che mollano tutto». Vive in Cina, a Suzhou, un centinaio di chilometri da Shanghai dal 2012, con il marito e i tre figli, uno nato dopo il suo espatrio. Divenire una expat, spiega, l'ha portata a riscoprire la passione del comunicare e condividere emozioni, notizie e stati d'animo, anche attraverso il blog www.cucinanto.com. Si è reinventata con la scrittura dopo aver lasciato il suo lavoro di contabile «in un'Italia in crisi stagnante». Ha trovato una realtà molto più dinamica, dice. In Asia tutto corre veloce e si ha la sensazione che le cose si possano fare, basta volerlo.

Qual è la sua prima immagine della Cina?

«Gli enormi agglomerati di altissimi grattacieli di cemento. Me l'aspettavo più romantica e "orientale", ho trovato invece una città funzionale dove la modernità viene esibita con grande orgoglio».

È molto più difficile che sia un uomo a mollare tutto.

«Di solito sono le donne a fare le "spose accompagnanti”. Mettono da parte la loro professionalità per tenere unita la famiglia, ma spesso con un senso di vuoto. I figli hanno invece un'adattabilità incredibile, imparano l'inglese alla velocità della luce e, sebbene gli amici vadano e vengano, per i contratti dei genitori a tempo determinato, riescono a superare i momenti di tristezza con grinta».

Il cilantro del titolo, che sembra prezzemolo ma non lo è, racconta anche la necessità di abbandonare i luoghi comuni.

«Mi si chiede sempre se dove vivo si mangiano i cani. Non ho mai visto una cosa simile, non ne ho mai sentito parlare dalle mie parti. Adoro il vero cibo cinese, è incredibilmente ricco e variegato. Non sono più riuscita a mettere piede in un ristorante cinese in Italia».

Nel libro c'è il bar di Assunta, una signora cinese, in cui le italiane si ritrovano ogni settimana. Il punto fermo di una comunità sostiene o rischia di isolare?

«Nella nostra città d'adozione i moltissimi italiani formano gruppi spontanei: colleghi della stessa azienda, ragazzi single, mamme con figli in età scolastica. Dà sicurezza, ma, anche se l'idea di parlare in inglese o scontrarsi con culture diverse intimidisce, bisognerebbe buttarsi».

E entrare in confidenza con i cinesi com'è?

«Non facilissimo. Uno straniero non può confondersi senza essere notato e il trattamento è giocoforza diverso, nel bene o nel male. Ma se ti adatti alle nuove abitudini vivi benissimo. Io passo sopra alle differenze culturali senza spazientirmi troppo, conscia che in Cina sono un'ospite. Ho addirittura preso delle abitudini come bere l'acqua calda ai pasti e portarmi la ciotola alla bocca per mangiare».

Nel libro si parla anche del riadattamento di chi torna in Italia.

«All'inizio dopo un periodo più o meno lungo in un paese straniero così diverso spesso si fa molta fatica a ingranare di nuovo in una quotidianità che non si sente più propria. Si chiama shock culturale inverso».

Da cosa della Cina non vorrebbe separarsi?

«Dal dinamismo che si respira, la sensazione che, con un po' di coraggio e volontà, si possano raggiungere i propri obiettivi».

Ci sono dei tratti della femminilità cinese da cui le donne italiane potrebbero avere qualcosa da imparare?

«Forse, fermi restando i pari diritti, dovremmo riappropriarci anche di una femminilità più dolce e mite».

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