Dai killer agli aguzzini la violenza nei film inizia da Sant’Agostino

di Elisa Grando Dell'attrazione fra la violenza e lo sguardo, snodo centrale del cinema contemporaneo, parlava già Sant'Agostino nelle sue "Confessioni", descrivendo gli effetti di un cruento...
Di Elisa Grando
1971 --- Original caption: Director Stanley Kubrick (right) filming close-up of little Alex in his phallic mask cutting the clothes off a woman he is about to rape in the picture A Clockwork Orange. The film won the 1971 best film honors of the New York film critics. --- Image by © Bettmann/CORBIS
1971 --- Original caption: Director Stanley Kubrick (right) filming close-up of little Alex in his phallic mask cutting the clothes off a woman he is about to rape in the picture A Clockwork Orange. The film won the 1971 best film honors of the New York film critics. --- Image by © Bettmann/CORBIS

di Elisa Grando

Dell'attrazione fra la violenza e lo sguardo, snodo centrale del cinema contemporaneo, parlava già Sant'Agostino nelle sue "Confessioni", descrivendo gli effetti di un cruento spettacolo di gladiatori sul pubblico. L'ultima polemica ideologica sull'accettabilità della violenza sullo schermo, e sulla necessità di "moralizzarla", è recentissima: ha investito "American Sniper", il nuovo film di Clint Eastwood su un cecchino dell'esercito americano, in corsa per gli Oscar che verranno assegnati domani sera. La violenza al cinema nasce fin dai primi esperimenti con la macchina da presa e arriva ai giorni nostri, passando per capolavori come "Arancia meccanica" di Kubrick e "Il mucchio selvaggio" di Peckinpah, il "cinema crudele" di Michael Haneke e l'iperviolenza stilizzata di Quentin Tarantino, sempre portando con sé uno strascico di polemiche su quanto sia "etico" rendere accattivanti (dal lato dell'autore) o godere (dal lato dello spettarore) situazioni violente sullo schermo. A fare il punto sul dibattito è il libro "Voglio vedere il sangue - La violenza nel cinema contemporaneo" (Ed. Mimesis) di Leonardo Gandini, professore associato di Storia e Critica del cinema ed Estetica del cinema all'Università di Modena e Reggio Emilia.

Gandini, perché il pubblico è da sempre attratto dalla violenza al cinema?

«Il rapporto privilegiato tra violenza e sguardo è preesistente al cinema. Al tempo delle esecuzioni pubbliche con le ghiglitottine, Parigi si riempiva dalle prime luci dell'alba di persone che volevano avere "un posto in prima fila". La violenza sollecita una modalità spettacolare, e quindi uno sguardo».

Perché, allora, registi che hanno diretto film su situazioni violente sono spesso stati accusati di essere "complici" stessi della violenza?

«L'orizzonte di pensiero sulle questioni che riguardano il rapporto fra etica ed estetica è molto confuso. Se un autore mette in scena situazioni violente con una certa ricercatezza stilistica, non è detto che parteggi per i personaggi violenti nel film. Per esempio Lars Von Trier non ha certo simpatie per la pena di morte, ma la sequenza di "Dancer in the Dark" in cui Björk va a morire è molto ricercata dal punto di vista stilistico».

Recentemente Eastwood è stato accusato di non condannare abbastanza il cecchino del suo "American Sniper", che in guerra in Iraq sparava anche su donne e bambini…

«Non concordo con chi ha attaccato il film sotto il profilo ideologico. È il ritratto di un uomo che crede nei valori americani, ma non c'è complicità nei confronti del personaggio. Dobbiamo ricordare che Eastwood è stato un'icona del cinema "pistoleggiante", si è costruito una carriera come poliziotto e come pistolero che ammazzava 30-40 persone a film. Quindi trovo coraggioso il suo percorso: quando ha raggiunto un'autonomia artistica ed economica ha cominciato a realizzare film, in particolare "Gran Torino", in cui problematizza la violenza cinematografica. Anche il protagonista di "American Sniper" si pone a volte degli scrupoli se sparare o non sparare».

Ha possibilità . di vincere l'Oscar?

«Non credo, anche perché in questo momento, col mondo islamico coi nervi a fior di pelle, se si premiasse un film del genere si butterebbe benzina sul fuoco».

Tra gli anni '60 e '70 vengono realizzati alcuni film, come "Arancia meccanica", "Il mucchio selvaggio" e "Gangster Story", che ridefiniscono in senso estetico il rapporto fra violenza e cinema…

«Fino ad allora nei western, nei film di cappa e spada, nei polizieschi la violenza aveva una morale: premiava i "buoni" e puniva i "cattivi". Fra gli anni '60 e '70 i cineasti cominciano a cercare soluzioni nuove e originali su questo tema che era già stato trattato in tutti i modi possibili. E così le carte si rimescolano: la violenza viene messa in scena con strumenti di stilizzazione maggiore, e i personaggi puniti dalla violenza sono quelli per i quali lo spettatore ha parteggiato, molto spesso gli stessi trasgressori della legge».

Il rapporto tra violenza e morale si complica…

«Pensiamo ad "Arancia meccanica": odiamo il personaggio di Alex, violento e stupratore, nella prima metà di film, ma poi quando subisce le terribili punizioni che la legge gli infligge ci ritroviamo a simpatizzare per lui».

Quali sono gli effetti sullo spettatore?

«Ci sono due grandi linee di pensiero che analizzo nel libro. La posizione "agostiniana" sostiene che la violenza penetra nell'individuo attraverso lo sguardo e lo intossica, e quindi bisogna evitare di guardare eventi violenti: è la posizione maggioritaria, basti pensare alla guerra ideologica verso i videogiochi violenti. Poi c'è la posizione "aristotelica", cioè l'idea che una persona sia talmente inorridita vedendo la violenza che si depuri dai propri istinti violenti. Le due posizioni hanno un solo tratto in comune: la convizione che la violenza non lascia indifferente lo spettatore».

Che differenza c'è tra il vedere una scena di violenza riprodotta, come quelle del cinema, e una vera, come le tragiche immagini delle esecuzioni da parte dei terroristi diffuse sul web?

«Il punto è la rappresentazione della violenza: quella cinematografica ha un senso, un ordine e una morale dati dalla struttura narrativa, quella sul web no, spesso è estemporanea e circola in maniera incontrollata. Anche nei casi di violenza cinematografica più insensata, quella di serial killer alla "Seven", c'è sempre una logica, per quanto perversa, che ci permette di capire perché un personaggio si comporta così».

Anche la violenza a volte sfrenata dei film Quentin Tarantino, quindi, ha una morale…

«Sì, una morale legata ad un'idea di rivalsa: viene concesso di essere autori di violenza a categorie sessuali, razziali ed etniche che nel cinema classico sono sempre state relegate al ruolo di vittime: le donne in "Kill Bill", gli ebrei durante l'Olocausto in "Ingloriuos Bastards", i neri in "Django Unchained"».

E cosa accade invece in generi brutalmente efferati come lo slasher e i film di tortura alla "Saw" e "Hostel"?

«Il rapporto tra violenza e morale è portato a un livello patologico: il protagonista è convinto che la violenza possa moralizzare una società corrotta alle fondamenta. È un concetto già presente in "Taxi Driver" di Scorsese: per Travis Bickle l'unico modo di lavare l'atmosfera di vizio di New York è di farlo nel sangue».

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