Dal sogno all’incubo: quei comunisti italiani finiti nella trappola del Maresciallo Tito

Il volume del ricercatore torinese Enrico Miletto, “Gli italiani di Tito. La Zona B del Territorio libero di Trieste e l’emigrazione comunista in Jugoslavia” (Rubettino, pagg. 343, euro 18) conferma il suo interesse scientifico per tematiche molto frequentate dalle nostre parti e il suo rigoroso lavoro su una gran mole di materiale archivistico. Due i contesti studiati, diversi ma assai significativi per gli italiani che fecero esperienza (inevitabile o volontaria) della Jugoslavia post bellica: la zona B dell’ex Territorio libero e lo scenario, quarnerino e industriale, della vicenda nota come «contro-esodo dei monfalconesi». Un ulteriore terreno di analisi - trasversale nell’opera - riguarda «lo sguardo di Roma», ovvero le politiche intraprese dal governo italiano in direzione dei distretti del buiese e del capodistriano, nonché i rapporti tra il Pci e le periferie del comunismo. La prima parte del volume offre la più aggiornata e documentata sintesi delle ricerche sulla Zona B 1945-1954; eventi che costituirono spinte vessatorie ed espulsive per gli italiani, vengono qui riproposti in un ampio quanto infelice quadro e nel complesso delle misure rivoluzionarie che le autorità jugoslave avviarono per preparare il terreno all’ annessione e all’integrazione nello jugoslavismo.
In significativa discordanza con il quasi coevo esodo da Pola, nel gennaio 1947 iniziò il trasferimento di lavoratori dall’isontino verso la Jugoslavia: soprattutto cantierini dal monfalconese, ma anche da altre zone, complessivamente tra le 2000 e le 3000 persone. A livello locale furono la delusione per il mancato inserimento del territorio nella VII Federativa jugoslava e la disoccupazione a mobilitare la classe operaia, più in generale il pasoliniano «sogno di una cosa» accomunava le élites militanti con «la valigia l’idea» e «la tessera del partito vicino al cuore» a giovani, insegnanti, giornalisti, intellettuali, musicisti, attori, poi inseriti nelle scuole, nell’editoria, nelle orchestre e nel Teatro del popolo di Fiume.
A far da ponte erano i comunisti giuliani, dei Sindacati unici e dell’Uais, che si appoggiavano a una rete di funzionari oltreconfine; dall’altra parte operavano emissari jugoslavi che battevano non solo il nord-est ma anche la Puglia, la Basilicata, la Sicilia per reclutare lavoratori qualificati disposti a trasferirsi. La maggior concentrazione di «monfalconesi» si ebbe a Fiume e Pola, (nella cantieristica, nei silurifici, nell’arsenale militare); diverse loro testimonianze descrivono l’entusiasmo iniziale dell’accoglienza e dell’ integrazione, ma anche le amare scoperte, relative al tenore di vita, al distacco tra le masse e i vertici del partito, all’«aggressiva collera nazionalistica» che si era vista contro i connazionali optanti.
Dopo il terremoto iniziato il 28 giugno 1948, con la durissima risoluzione del Cominform contro la Jugoslavia di Tito, si aprì la lunga crisi dell’ Informbiro; il punto di partenza dei dispositivi inquisitori e repressivi può essere considerato il comizio tenuto da Ivan Regent a Fiume il 20 agosto: funzionò da precoce discriminazione tra i solidi sostenitori di Tito e i «contestatori» o «anarchici» o ingenui caduti nella rete dell’Udba. La crescita smisurata di informatori, occasionali o professionisti della delazione, portò ad una capillare infiltrazione nei gruppi di - veri o presunti - cominformisti. Miletto segue - anche attraverso vari approfondimenti biografici - i caduti nella rete: militanti di primo piano e minori, parte di quella cinquantina di persone che subì vessazioni economiche, umiliazioni delle famiglie, violenze.
Alcuni ripararono subito in Italia, altri dopo breve permanenza nelle carceri fiumane furono deportati a Zenica nella Bosnia meridionale assieme alle famiglie, per il lavoro forzato nelle miniere. A partire dal 1949 la macchina della repressione entrò a pieno regime, e gli italiani arrestati per cominformismo nel giro di tre anni furono circa 2000: alcuni sprovveduti e disorientati, altri consapevoli, filosovietici e fondatori a Fiume di due organizzazioni cominformiste.
Decine di monfalconesi attraversarono l’arcipelago carcerario di Stara Gradisca, Sremska Mitrovica, Uljanik, Bileče, Sveti Grgur e Goli Otok. Se sul sistema di annullamento e autogestione della sofferenza di Goli Otok esiste un’ampia letteratura, meno noti rimangono gli altri campi ove vigeva lo stesso modello detentivo dell’Isola calva.
L’ultimo gruppo di cominformisti italiani uscì dalla prigionia nel 1956. Né eroi né vittime, i rientrati in Italia furono isolati politicamente e socialmente: colpiti dalla disoccupazione e dalla miseria, emarginati dagli ex compagni che li vedevano come testimonial di imbarazzanti errori o – peggio – possibili infiltrati titini e poi intralci sulla strada della riappacificazione.
Era altamente consigliabile l’oblio, così come la distruzione delle carte relative alla fitta corrispondenza tra il Pci e le cellule cominformiste. Ma il lavoro di Miletto ci restituisce attraverso abbondante memorialistica la vicenda esistenziale di coloro che disobbedirono e produssero testimonianza. —
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