Danilo Rea: «In duo con Enrico Rava portiamo i grandi standard a Jazz & Wine»

Si inaugura oggi a Cormons la rassegna con i 30 i concerti in programma, tutti in osservanza delle nuove disposizioni  

l’intervista



Nonostante le restrizioni, la 23.ma edizione di Jazz & Wine of Peace tiene duro e, fra i trenta concerti che ha in cartellone fino a domenica, oggi prevede quello inaugurale. A esibirsi al Comunale di Cormons, alle 21, sarà un duo d’eccezione formato da Enrico Rava alla tromba e Danilo Rea al piano. Nel rispetto delle normative, anche se il teatro avrà un terzo dei suoi posti a sedere, la musica andrà quindi avanti.

Rea, quando e come nascono il sodalizio e l'amicizia con Enrico Rava?

«Per tutti gli artisti della mia generazione Enrico ha rappresentato un faro. Con lui ho sempre avuto il desiderio di suonare, ma l’incontro tra noi non riusciva a concretizzarsi, anche perché già Rava si esibiva con Franco D’Andrea e con Stefano Bollani. L’occasione è giunta grazie a un concerto di beneficenza all’università di Camerino, almeno quindici anni fa, con Gino Paoli, che cantava i brani sui quali improvvisavamo Enrico, io, Roberto Gatto, Rosario Bonaccorso e Flavio Boltro. Da allora è iniziata una lunga collaborazione con quel gruppo, ma, saltuariamente, Rava e io abbiamo anche iniziato a suonare in duo, meravigliandoci che non avessimo cominciato a farlo prima. Poi, da circa due anni suoniamo assieme più spesso e pure quest’estate di concerti ne abbiamo fatti parecchi. Enrico ha una caratteristica che solo Miles Davis possedeva: riesce a trasformare le imperfezioni, le imprecisioni, le note sporche nella propria poetica, nella propria grandezza d’artista».

Oltre che con Rava, lei ha suonato anche con Paolo Fresu, l’altro trombettista italiano più popolare. Trova punti in comune fra i due?

« Sono entrambi molto poetici. Il repertorio, poi, è piuttosto simile: nei miei concerti, sia con Paolo sia con Enrico, si toccano standard celebri del jazz, ma anche canzoni napoletane; con Rava, inoltre, faccio un brano di Michael Jackson (“I just can’t stop loving you”), al quale lui aveva dedicato un disco».

E le differenze maggiori, quali sono?

«Paolo, grazie alle apparecchiature che usa, agisce in maniera elettronica sul suono, mentre Enrico è molto più “nature”. Proprio nella sonorità, nella scelta di note, risiede la principale differenza tra i due, ma entrambi tengono conto della grande tradizione che viene un po’ da Chet e un po’ da Miles. In ogni caso, è tutta la scuola dei trombettisti italiani a essere incredibile: nelle orchestre Rai c’erano musicisti di gran classe, ma penso anche a Marco Tamburini, che è scomparso per un incidente, a Flavio Boltro, a Fabrizio Bosso, artisti che tutto il mondo ci invidia».

Un anello di congiunzione tra lei e Rava è rappresentato anche da Massimo Urbani, il sassofonista prematuramente scomparso nel 93, con il quale entrambi avete collaborato.

«Enrico ha suonato molto con Massimo, ma pure io mi sono esibito parecchio con lui, per esempio facendo parte del suo ultimo disco: “The Blessing”. Massimo è stato un pioniere, ma non solo: è stato probabilmente il nostro sassofonista più grande. Enrico con lui ha suonato tanto, perché è in grado di riconoscere il talento nei giovani. Non a caso ha sempre collaborato con artisti che sono diventati leader. Anche in questo è un po’ simile a Miles che ha trovato sulla propria strada Herbie Hancock, Chick Corea».

Come ricorda Urbani?

« Era dolcissimo e molto legato alla famiglia. Purtroppo aveva il problema della droga e nei momenti di crisi diventava insopportabile».

Problemi analoghi a quelli di Chet Baker, un altro con cui lei ha suonato…

« Pure lui era amico di Massimo. Ero molto giovane, poco più che ventenne. Quando veniva a Roma, chiedevo l'auto a mio padre e Chet dormiva nel sedile accanto al mio. Si svegliava per il concerto. Decideva che brano suonare e lo chiamava. Se non lo conoscevamo dovevamo fermarci, piuttosto che arrancare. Qualche volta, non conoscendo il brano, avevo preferito non suonare, ma il rapporto con lui è sempre stato perfetto. Un amico mi raccontò che per Chet i musicisti italiani, almeno in Europa, non erano secondi a nessuno». —

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