Due estranei su una panchina e un diario Franzoso e le parole che salvano la vita

In libreria da martedì il nuovo romanzo dello scrittore veneto, “Le parole lo sanno” che esce per Mondadori



Seconda panchina a destra dopo la cascatella, di fronte al tiglio che si inchina verso l’acqua e al piccolo albero dalle foglie scure protetto da un cappotto d’edera. Un luogo sospeso in cui il tempo rallenta la sua corsa e in cui le vite di Alberto e di Flavia si siedono con il loro carico di dolore e diventano una storia. Quella panchina è l’isola al centro dell’ultimo romanzo di Marco Franzoso, “Le parole lo sanno” (Mondadori, 180 pagine, 18 euro), in libreria da martedì, che ancora una volta tocca in tono sommesso e con parole delicate temi drammatici.

Altrove, e soprattutto ne “Il bambino indaco” del 2012 da cui è stato tratto il bel film di Saverio Costanzo, lo sforzo delirante di una madre per proteggere suo figlio dal mondo malato che li circonda, il desiderio di purezza trascinato fino alla follia, un epilogo fatto di coraggio e disperazione. E ancora, in “Gli invincibili” del 2014, la paternità nell’abbandono della madre, la lotta per salvare il figlio dalla fragilità del suo corpo e da molto altro. In questo libro, la malattia e la violenza sulle donne e il bisogno che ne deriva di cancellarsi, di negare la propria identità.

Alberto è un medico a cui è stato appena diagnosticato un tumore in fase terminale. Ha una ex-moglie, un figlio, un padre, ma all’inizio affronta da solo “il mormorio glaciale della malattia”. Si compera quasi per caso un paio di occhiali da cieco e, visto che glielo offrono a buon prezzo, anche un bastone bianco. Più che altro sembra voler nascondersi a se stesso ed è inevitabile pensare al (forse) falso cieco al centro di “Il mio nome sia Gantenbein” di Max Frish. Una metamorfosi dell’identità, la vita vissuta come una commedia perché “la gente davanti ad un cieco non baderà tanto a nascondersi, così che gli riuscirà di conoscerla meglio, e ne scaturirà un vero rapporto”.

Questo succederà ad Alberto. In attesa di trovare la forza di confessare la situazione a chi gli vuol bene e di accettare di farsi aiutare, il suo bastone lo accompagna al parco che frequentava da giovane e a quella panchina condivisa con Flavia. La pretesa di non vedere lo porta a sentire il profumo di lei “come uno schiaffo di vita” e rende più intenso il fascino di quella voce bassa, sospirata e indecisa, che piano piano lui si concede di ascoltare e che piano piano incomincia a raccontargli.

Flavia con la gonna a fiori e la passione per la letteratura, Flavia con il suo bambino e un marito violento e che in qualche modo malato, un’altra terribile malattia questa, le fa anche pena. Il loro appuntamento quotidiano diventa per Alberto l’ultimo senso possibile alla vita che gli sta sfuggendo, per Flavia l’unico spazio in cui non deve difendersi, in cui può rimettersi al centro della sua vita, sfuggire al recinto invisibile in cui la gelosia del marito la costringe. Lei si annulla per sopravvivere, lui si nasconde la vista per riuscire a morire. Si toccano, un poco, si baciano dietro un albero e allora lui si invaghisce di quell’ultimo amore e decide di salvarla con un gesto estremo. Poi racconta tutto in un diario, perché “le parole sanno sempre dove andare, anche se non sempre seguono le strade disegnate da noi”.

Alberto scrive perché Flavia non c’è più, perché ora non possono più condividere momenti rubati alle umiliazioni, e perché è convinto che le sue parole la troveranno. Qualcuno che sta in una “palude sentimentale e professionale” incontra quelle parole sulla panchina e passa un pomeriggio dentro il diario di un estraneo che pare scritto per lui, ma trova anche poche righe scritte da Flavia dopo che ha trovato la panchina vuota: “Caro Alberto, sei l’unica persona con cui vorrei parlare”.

Il testimone accidentale decide allora di prendersi carico dei fatti accaduti e delle loro conseguenze, di pubblicare il diario per permettere alle parole di andare e di ritrovare, forse, la sopravvissuta tra “quelle due persone che si erano magicamente incontrate in quel momento di passaggio delle loro esistenze, facendo sbocciare qualcosa d’inatteso e meraviglioso”.

Le prime parole del diario sono “Cara Flavia, non so più quale sia la verità” e anche Franzoso non dice tutto, ci lascia con alcuni dubbi essenziali e di nessuna importanza. Ciò che importa è che solo attraverso i suoi occhiali scuri Alberto ha capito di essere stato cieco per tutta la vita, ciò che importa è la consolazione della luce tra gli alberi, la capacità di fare un gesto assurdo nella presuntuosa magica illusione di poter salvare qualcuno, la sublime capacità che tutti noi abbiamo di lasciar riaccendersi la vita anche quando sappiamo di dover andare via. —

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