Eleonora Marangoni e l’ossessione per misteriose figure viste di schiena
Si può scrivere un libro seguendo solo persone che non vediamo in faccia? L’ha fatto Eleonora Marangoni con “Viceversa- Il mondo visto di spalle” (Johan & Levi), raccontando le “figure di schiena” nei secoli, tra dipinti, affreschi, fotografie. Un libro nato per caso, o forse no: un giorno Eleonora, “nell’imprevedibile nitore che i traslochi portano con sé”, si accorge che in camera ha tre stampe comprate in luoghi e momenti diversi, ma tutte con figure viste di schiena (le vediamo nel libro, insieme alle altre, molto belle, che ci accompagnano per tutte le curatissime 160 pagine). Dunque il libro è nato così: da una personale, sofisticata ossessione. Particolare ancora più curioso, una delle immagini “di schiena” raccontate è Monica Vitti; con la frase di Antonioni, che quando la conobbe le disse: "Ha una bella nuca, può fare del cinema." Alla Vitti, altra sua fascinazione, Eleonora Marangoni ha dedicato un libro di racconti appena uscito, “E siccome lei” (Feltrinelli).
Libri così diversi, come mai?
«Spesso si dice: "bisogna scrivere di quello che si conosce". Giusto, ma a volte è anche bello scrivere di cose di cui vorremmo sapere di più. Ci sono libri che nascono come somma e suggello di conoscenze già esistenti, altri che invece sono viaggi, percorsi trasversali e imprevisti. “Viceversa” appartiene alla seconda categoria. Non ero certo un’esperta di “Rückenfiguren”, figure di schiena, prima di iniziare a lavorarci: ma pensare a come scriverne mi ha permesso di indagare la bellezza e il mistero di un tema che altrimenti sarebbe rimasto soltanto mio, un’ossessione personale condivisa con pochi.
Lo stesso, in un certo senso, vale per il libro su Monica Vitti. Non sono un’esperta di cinema. Con i film della Vitti, però, sono cresciuta; e scrivere dei racconti ispirati ai suoi personaggi è stato un modo per stare con lei».
Continua l’ossessione “figure di schiena”, ne ha trovate altre?
«Certo, ne trovo di continuo. Alcune le posto su Instagram: @viceversa_2020 o sul mio account personale: @soli_al_sole.
E adesso anche i lettori me ne mandano: foto, dipinti, fotogrammi, o foto scattate da loro. È una collezione sterminata, e parte del suo fascino sta proprio in questo».
Prima di questi libri-ossessione, ha scritto un romanzo, “Lux” (Neri Pozza), finalista al Premio Strega nel 2019. Dentro c’è Trieste…
«È ambientato in un’isola volutamente imprecisata del Sud, ma uno dei personaggi viene da Trieste. È Olivia, una giovane biologa. Schiva ed enigmatica, aspetta un bambino da un uomo di cui non si sa nulla, e all’inizio è la più sfuggente dei clienti che si ritrovano all’hotel Zelda. Dice: “Trieste è la città piú scomoda d’Italia. O meglio, lo è per chi non ci è nato. Io ci vivo da sempre e non ci faccio nemmeno piú caso”».
Quindi Trieste ha conquistato anche lei?
«L’ho scoperta qualche anno fa. Stavo scrivendo “Lux”, appunto; dei cari amici vivevano lì, e sono andata a trovarli. Uno è l’illustratore triestino Davide Lippolis, che dopo tanti anni a Roma era tornato a vivere nella sua città. Era fine agosto. A ottobre ero di nuovo lì, a scrivere, e da allora cerco di tornare ogni anno».
Che cosa le piace di Trieste?
«Tutto: la relazione con il mare, il cibo, le donne e gli uomini dai visi e dai nomi antichi, i negozietti di antiquariato, i vicoli di san Giusto, le osmize sulle colline, il Pedocin, la pineta di Barcola. Non avevo mai visto un marciapiede trasformato in bagnasciuga, con le docce tra i lampioni! Indimenticabile.
I tavolini dell’Hortis Caffé (ma prima del restauro, mannaggia.) E che tristezza che non ci sia più la Bottega del Nonno a Cavana! Quando ho scoperto che chiudeva ci sono rimasta malissimo. L’anno scorso, poi, sono stata sulla terrazza del museo Revoltella a presentare “Lux”. Se non fossi mai stata a Trieste, sarebbe bastata quella serata sul tetto, sul golfo, per volerci tornare». —
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