Fabio Isman ricostruisce gli anni della Grande razzia contro gli ebrei di Trieste

Il giornalista e scrittore pubblica con Il Mulino “1938, l’Italia razzista”, indagine sui 400 provvedimenti di “arianizzazione” che toccarono professioni, scuola, commercio, ma anche ospedali e case di riposo 
18th Century European Jewish family, prepare to celebrate the beginning of the Sabbath c1868.
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LA DENUNCIA



Oltre al Magazzino 18 nel Porto Vecchio di Trieste c’è un altro luogo, molto meno noto, che fu testimone di una delle pagine più dolorose della nostra storia. All’interno del Magazzino 23 infatti dall’11 maggio del 1943 furono ammassati i beni abbandonati dagli ebrei in fuga dalle persecuzioni: circa 2000 cassoni contenenti mobilio, indumenti personali, argenteria, cristalleria, vetri, quadri, tappeti e molto altro. Quasi tre tonnellate di merci che in gran parte finirono spedite in Germania dagli occupanti nazisti. Lo svela il giornalista e scrittore Fabio Isman nel libro “1938, l’Italia razzista” (Il Mulino 2018, pagg. 275, euro 22), che ripercorre attraverso documenti ripescati dagli archivi non soltanto la tragedia della Shoah ma le conseguenze degli oltre 400 provvedimenti persecutori che dal 1938 in poi esclusero gli ebrei dalla scuola, dal mondo del lavoro, dalla vita civile, finendo per spogliarli di ogni avere. Agli israeliti furono confiscati beni per oltre 150 milioni di euro odierni: fu la cosiddetta “Grande razzia”, indagata dallo stato italiano solo dal 1998, attraverso una commissione presieduta da Tina Anselmi.

Triste primato

In questa storia di deprivazioni spesso ancora ignorata Trieste occupò un ruolo di primo piano fin dall’inizio: «Era la città percentualmente più ebraica d’Italia e con un’anima irredentista che avrebbe potuto creare un ambiente favorevole al fascismo: perciò fu scelta da Mussolini per annunciare nel 1938 le leggi razziali», spiega Isman. Le vessazioni iniziarono ben prima che questi territori passassero sotto il diretto controllo nazista nel 1943, sotto il nome di Adriatisches Küstenland. A Trieste infatti, caso unico in Italia, già nel 1937 il prefetto aveva predisposto un’esaustiva “radiografia ebraica”, come la definisce Isman: un censimento che dava conto di chi erano e dove lavoravano gli ebrei che abitavano questi territori e che facilitò di molto il compito degli invasori.

Tra i tristi primati triestini vi fu non soltanto il numero di deportati, ben 554, o la presenza in città dell’unico campo di sterminio su territorio italiano, la Risiera di San Sabba. Trieste si distinse anche per le espulsioni ebraiche dalle scuole e dalle università: basti ricordare il caso del liceo Petrarca, dove ben 80 studenti furono cacciati. Molte società ebraiche mutarono struttura organizzativa, nome, proprietari, predisponendosi all’arianizzazione ancora prima che le leggi antisemite venissero emanate. La Borsa cittadina fu tra le prime a proibire l’ingresso agli ebrei con un escamotage, istituendo una tessera che a loro venne negata.

I NEGOZI

Già prima dell’armistizio ai sequestri si accompagnarono i saccheggi: esemplare fu la vetrina di Principe, negozio di abbigliamento in via del Corso, imbrattata con la scritta “Chiuso per sempre, negozio ebreo”. E quella del Caffè Portici, dove un cartello recitava: “Vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. L’Egeli, ente creato nel ‘39 per gestire e liquidare i beni sequestrati agli ebrei e cancellato del tutto solo nel 1997, a Trieste fece affari d’oro grazie alle ditte ebraiche liquidate. In città infatti risiedevano noti industriali ebrei, dagli Stock ai Morpurgo, ai Brunner. Furono confiscati conti bancari e saccheggiati appartamenti e già nel ’39, ricorda la studiosa Silva Bon, la prefettura requisì alcune ville di pregio appartenenti a famiglie ebraiche per poi insediarvi comandi militari. Come disse il Nobel Elie Wiesel fu “strappata la ricchezza ai ricchi, e ai poveri la povertà”.

Vecchi e matti

«Quando arrivarono i nazisti nel ’43 vi fu il colpo di grazia: quattro mesi dopo aver occupato la città andarono a prendere i vecchietti ebrei dell’asilo per anziani Gentilomo e li deportarono tutti e 54, destinazione Auschwitz - racconta Isman -. Prelevarono anche almeno 39 ebrei dall’Ospedale psichiatrico provinciale: molti di questi probabilmente si erano fatti ricoverare proprio per cercare di salvarsi dalla deportazione». Tra coloro che scamparono alla persecuzione vi furono quelli che fuggirono all’estero e quelli che - per meriti, per denaro e previa asserzione di italianità - riuscirono a usufruire della cosiddetta “discriminazione”, uno status privilegiato di cui, per esempio, si avvalse per un periodo anche Umberto Saba, dichiaratosi “cittadino e scrittore italiano, di razza italiana”.

Tra le storie più significative del periodo Isman ricorda quella dei Pollitzer, famiglia ebraica di imprenditori nel ramo del sapone, che per riavere la villa di proprietà che era stata requisita fece ricorso al Tribunale della Razza. Fu il giudice Manlio Cecovini, futuro sindaco di Trieste, a siglare la sentenza che dichiarava la non ebraicità dell’erede Andrea. C’è una frase di Pietro Calamandrei che racconta in tutta la sua crudezza questa pratica, che al prezzo della dignità, di idonee raccomandazioni e quasi sempre di un’opera di corruzione riuscì a sottrarre alcune persone alle persecuzioni: al Tribunale della Razza, scrisse Calamandrei, vi furono «più di 50 domande di ebrei che chiesero di dimostrare di essere figli di puttane, cioè figli adulterini di padre ariano». Se dunque le cifre della “Grande Razzia” sono state ricostruite solo in parte, e anche le restituzioni sono state parziali, rileggere oggi la minuziosa ricostruzione di Isman restituisce appieno non soltanto l’accanimento persecutorio antiebraico, ma anche gli arbitrii, le ruberie e l’indifferenza sociale che circondarono questa vessazione di massa. —

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