Ferrara scomodo nella Roma multietnica

Il maestro di origine italiana ritorna in laguna per presentare il suo documentario “Piazza Vittorio”
Udine, 21 settembre 2014..Cinema Visionario..Abel Ferrara presenta il suo film PASOLINI, con Willem Dafoe. .Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone
Udine, 21 settembre 2014..Cinema Visionario..Abel Ferrara presenta il suo film PASOLINI, con Willem Dafoe. .Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone
Abel Ferrara è sempre rimasto legato alle proprie radici italiane, anche se egli è per eccellenza il regista di una New York “brutta sporca e cattiva”, al cui epicentro c’è quel Bronx dov’è nato 66 anni fa da un padre allibratore figlio di immigrati ebrei di Salerno e da una casalinga irlandese.


Ferrara è tornato in Italia recentemente, abbandonando la Grande Mela, e qui ha girato la maggior parte dei suoi ultimi film, come “Mary” (2005), realizzato a Matera, “Go go tales” (2007), prodotto interamente a Cinecittà, la docufiction “Napoli Napoli Napoli” (2009) e il “Pasolini” (2014) con Willem Dafoe proposto proprio alla Mostra di Venezia non senza polemiche. Ma in laguna Ferrara è sempre stato considerato un ospite illustre: oltre ai già citati “Mary” e “Pasolini” vi ha presentato, infatti, alcune delle sue opere migliori, più originali e intransigenti: “Occhi di serpente” (1993) con Madonna e Harvey Keitel, spietata riflessioni di cinema nel cinema, “Fratelli” (’96), gangster-movie crepuscolare e tragico, “New Rose Hotel” (’98) parabola etico-fantascientifica ambientata in futuro distopico, “4:44 l’ultimo giorno sulla Terra” (2011) con Dafoe e Shanyn Leigh che attendono la fine del mondo causata dal suicidio ambientale dell’uomo.


E a Venezia Ferrara ritorna oggi presentando in Sala Grande fuori competizione il suo ultimo documentario, “Piazza Vittorio” ovvero Piazza Vittorio Emanuele, posta sull’Esquilino: è la cronaca di una giornata trascorsa in uno dei luoghi più simbolici della Roma multietnica, vitale e contraddittoria, divenuto celebre dopo la nascita dell’omonima orchestra e intriso di cinema a cominciare da personalità che hanno scelto di risiedervi come Matteo Garrone o lo stesso Dafoe. Dunque il viaggio tra passato e presente in un microcosmo dove si riflette «oggi più che mai – osserva il regista – l’evoluzione nelle nostre società dell’eterno tema dello “straniero”».


Non sorprende questo recente approdo nella tematica di un regista tra i più “morali” ma anche scomodi ed estremi affacciatisi sulla scena americana negli ultimi trent’anni. Perché Ferrara, cresciuto in un ambiente fortemente cattolico come si evince anche dal suo nome di battesimo, nel suo lavoro si è sempre interrogato con forza e spesso con crudeltà autocritica sui temi del peccato, della colpa e della redenzione; nonché sui devastanti effetti collaterali che l’applicazione di rigide regole etiche può comportare per gli individui e per le collettività.


E pensare che Abel, dopo una robusta gavetta di cortometraggi in super8 come qualsiasi esordiente negli anni ’70 che si rispetti, aveva esordito a 26 anni con un film porno, tale “Nine lives of a wet pussy” (vi risparmiamo la traduzione…) firmato con uno pseudonimo. Del resto anche il successivo “The driller killer” (’79) era un prodotto a basso costo appartenente al cosiddetto filone “slasher” (film di maniaci omicidi che uccidono all’arma bianca), che pure ne fece notare le spiccate qualità immaginative e tecniche. Ma già nell’81 con “L’angelo della vendetta” Ferrara inizia a declinare apertamente i propri incubi sul dissidio tra violenza, religione, espiazione e vendetta, con la storia di una ragazza sordomuta che ripetutamente violentata assume diversi travestimenti – l’ultimo da suora – e si trasforma in spietata giustiziera della notte. Con collaboratori fedeli come lo sceneggiatore, fondamentale, Nicholas St.John e il compositore Joe Delia, la filmografia di Ferrara pur continuando a produrre anche titoli apparentemente solo di genere pulp (il potentissimo “King of New York”, “Paura a Manhattan”, “Oltre ogni rischio” e “China girl”, variazione noir sul “Romeo e Giulietta”) abbandona progressivamente i toni di una violenza esplicita e compiaciuta ed affronta più direttamente i dolorosi temi filosofici e interiori che stanno a cuore al regista.


Nasce così la cosiddetta “trilogia del peccato” formata dallo sconvolgente “Il cattivo tenente” (’92) con Harvey Keitel poliziotto-peccatore che dà la caccia agli stupratori di una suora, il già citato “Occhi di serpente” ancora con Keitel regista in cerca di riscatto interiore, e “The addiction” (’95), forse il suo capolavoro: un film di vampiri in bianco e nero che mescola simbolismi cristiani e nichilismo nietzschiano in una messa in scena senza respiro. Un vertice che Ferrara non toccherà più, anche se il suo “Ultracorpi – L’invasione continua” (’93) secondo remake del classico di Siegel dopo quello di Philip Kaufman, il thriller della memoria “Blackout” (’97) e l’ironico “Il nostro Natale” (2001) dimostrano una tagliente e inappellabile lucidità d’autore, mantenuta persino nel forzato “Welcome to New York” (2014) ispirato allo scandalo sessuale di cui fu protagonista il direttore del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn.


La sua fatica più recente è “Alive in France”, documentario dedicato all’aspetto musicale dei propri film: perché Ferrara è anche compositore, e la musica è per lui – come il cinema – un “affare di famiglia”.


©RIPRODUZIONE RISERVATA


Riproduzione riservata © Il Piccolo