Francesco Burdin, che inseguiva la sua ombra in fuga dall’identità

Forse tutti gli affetti e non solo le passioni sono mistificazioni della realtà
Francesco Burdin (Trieste, 1916 – Roma, 15 dicembre 2003) tra i vari riconoscimenti nel 1985 vinse il Premio Flaiano per la narrativa
Francesco Burdin (Trieste, 1916 – Roma, 15 dicembre 2003) tra i vari riconoscimenti nel 1985 vinse il Premio Flaiano per la narrativa

Se devo segnalare un libro di qualità, da riproporre alla lettura, che bene rappresenti qualche aspetto della fisionomia e storia culturale di Trieste, e magari della sua attualità. Mi è venuto alla mente un autore, Francesco Burdin, una delle presenze più significative di quella seconda grande stagione della letteratura triestina che si apre tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta. Giuliano Gramigna – che ne era lettore affezionato (assieme a Luigi Baldacci, Carlo Bo, Franco Antonicelli, Giuseppe Marchetti, tra gli altri) – affermava (“Corriere della sera”, 2 febbraio 1994) che le pagine di Burdin costituiscono un “punto di riferimento indispensabile della nostra narrativa del cinquantennio”.



Già la storia di Burdin (Trieste 1916-Roma 2003) ci dice molto della sua formazione e interessi. Nato da famiglia originaria di Cormòns, Burdin - laureatosi in Lettere a Roma – aveva lavorato per molti anni ai programmi radiofonici a Bari, Milano, Torino, poi a Roma nei servizi giornalistici e, quindi, in quelli culturali della Rai. Per i servizi culturali si occupò di vari settori della produzione musicale e di programmi di varietà. Il suo esordio, come scrittore, risale al 1938, quando Cesare Zavattini gli pubblicò alcune pagine narrative. Alcuni suoi scritti suscitarono l’interesse di Elio Vittorini. Ma la sua attività ufficiale di scrittore risale al 1964, quando una collana di narrativa (ed.Cappelli) diretta da Raffaele La Capria e Oreste del Buono pubblicò il romanzo “Caduta in piazza del popolo”, seguìto – negli anni e decenni successivi - da numerosi libri di narrativa e di aforismi: tra i più noti, “Eclisse di un vicedirettore generale”, Rizzoli, 1969; “Il viaggio a Varsavia”, Marsilio, 1973; “Marzo è il mese più crudele”, De Donato, 1973; “Antropomorfo”, Marsilio, 1979; “Ai miei popoli”, Dedolibri, 1987; “Manes”, Vallecchi, 1988; “La frontiera rovesciata”, Editrice Goriziana, 1997; “Un milione di giorni”, Marsilio, 2001.



Burdin è stato sempre scrittore di storie che puntavano a illuminare le zone enigmatiche, i misteri, i lati fragili, le giunture deboli, le ambiguità della cosiddetta realtà. E ciò attraverso una scrittura e un racconto che, in qualche modo, dovevano individuare tali caratteristiche di un mondo a più piani, a più facce, ambigue, spesso manipolate, alterate, supposte, svelandone la sostanza di fondo, i paradigmi. La scrittura doveva cioè – ha detto una volta Burdin (che definiva la propria posizione come una “avanguardia personale”) – “suggerire” piuttosto che “riferire”. Un’operazione che comportava una laboriosità di struttura, in quanto fondata su ipotesi o su prospettazioni a più strati della realtà. “Ipotesi” o “illazioni” o “sospetti” o “congetture”: termini che ricorrono frequentemente in Burdin, nodali nella definizione del suo pensiero. Dove, ricordava lo scrittore, il tema dell’identità appare da sempre dominante e costante.



Tra le opere essenziali per entrare nel laboratorio di Burdin c’è un romanzo del 1973 (Marsilio), “Il viaggio a Varsavia”, dove ricorre una caratteristica propria del narratore, quella dello sdoppiamento o moltiplicazione dei personaggi, delle storie, dei luoghi, dello stesso protagonista che – nel corso della narrazione – modifica alcuni connotati segnaletici, e prospetta più e diverse possibilità di esistenza, equivoco, intrappolamento, coinvolgimento in progetti atti a incastrarlo. Come nel caso – in questo romanzo – del presunto Francesco B., che dichiara di chiamarsi così, che cerca di convocare nell’ospedale in cui è ricoverato moglie, figli, conoscenti e testimoni di ogni genere per affermare e convalidare la propria identità, ma viene tacitato dall’affermazione concorde dei convocati secondo i quali Francesco B. è in viaggio a Varsavia. Per cui tutto rimane in sospeso in attesa che l’altro Francesco B. – una sorta di ombra staccata dal corpo di Peter Schlemihl – torni da Varsavia e si ricongiunga (ma non è detto) con il ricoverato. Dietro, è chiaro, c’è Pirandello, ma anche l’operazione di un Joyce – rappresentata dallo scrittore in un saggio del 1982 – descrittore in anticipo di “una disintegrazione dell’uomo che solo ora possiamo riconoscere come avvenuta”. Disintegrazione, ma anche scollamento degli strati diversi del personaggio, per effetto della scoperta di tratti del profondo nella psicologia, o di conflitti e contraddizioni e supposizioni che mettono in crisi la stessa unità dell’esistenza, della personalità dell’uomo, delle motivazioni del suo essere. E introducono il sospetto intorno al vero senso della vita, celato - forse – dietro la nostra comune e banalizzata rappresentazione della stessa.

Una delle figure del “Viaggio a Varsavia”, vedovo trasandato e trascurato, scopre che la moglie aveva già contratto – prima di sposarlo – altre nozze di cui egli non era a conoscenza. E riflette sul senso di questa “perversità”, anche con l’aiuto di Stendhal. E conclude: “Forse tutti gli affetti, tutti i sentimenti umani, e non soltanto le passioni, ma anche il dolore, la devozione, il rimpianto, sono altrettante mistificazioni. Forse la vita stessa esiste in una sua forma esclusivamente immaginaria, non è vera ma verosimile, e ci affanniamo a concederle credibilità, a trasfigurarla in mille modi, per illuderci, con una quotidiana opzione per l’inganno, di una realtà inesistente”. Sospetti, incertezze, misteri, congetture (quelle congetture che Eco – nelle postille al Nome della rosa - vedeva come forma propria dell’ interesse del lettore del poliziesco ma anche come base del discorso filosofico e della ricerca scientifica). Ipotesi: come quelle formulate sulla propria situazione dal personaggio del Viaggio che tenta il suicidio senza riuscirvi per approdare all’idea che “il male che compiamo verso di noi e verso gli altri, l’odio, la violenza e infine la morte, sono solo gli scioglimenti possibili di un ininterrotto e perpetuo annullamento”. Sono, questi, alcuni dei termini dell’ampia e complessa riflessione-investigazione-satira di Burdin (allievo originale di Voltaire, Cervantes, Poe, Sterne, Joyce, Pirandello, Musil per citare solo alcuni dei suoi nobili “maestri”) sulle ipocrisie, la retorica, i lati oscuri, i misteri di una realtà che – per essere compresa – ha bisogno, più che di scrittori ripetitori e “su ricetta” (come diceva Collodi), di investigatori autentici di prima mano anche nell’immaginazione e nella scrittura. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA
 

Argomenti:piccolo libri

Riproduzione riservata © Il Piccolo