“Génie” che fa la matta nel racconto della figlia dimenticata dalla vita
«La chiamavano Génie la matta. A volte attraversava il paese a passi svelti con al braccio il cestino di legno in cui metteva sempre il sacco di juta che le serviva da cappuccio in caso di pioggia. Io le correvo dietro con tutta la forza delle mie gambette». Inizia così il racconto di Marie, figlia dello stupro, sulla madre che tutti chiamano “Génie la matta”, perché non parla mai con nessuno e mai ride. É l’incipit sconvolgente del secondo romanzo dei soli tre scritti da Inès Cagnati, un’autrice francese ignota in Italia, nata nel 1937 e morta nel 2007, figlia di contadini veneti emigrati in Francia. Mai tradotta finora. Scritto nel 1976 “Génie la matta”, tradotto per Adelphi da Ena Marchi (pagg.186, euro 18) ha vinto il prix des Deux Magots.
Il romanzo azzera in un solo colpo tutta la poesia del mondo contadino e il sogno incontaminato dell’infanzia. Il nonno dice che “Génie la matta” rideva e cantava tutto il giorno prima di rimanere incinta. Il padre di Marie non ha un nome. Così sua nascita bastarda ha infangato la famiglia «più rispettabile del paese». Per questo Génie viene ripudiata e messa ai margini della società. Per mantenersi, lavora a servizio nelle fattorie, munge le mucche in cambio di cibo, o cucina ai battesimi o alle comunioni. Marie le corre appresso in cerca di un po’ d’amore e con il terrore costante dell’abbandono. Inganna il tempo parlando con la vaccherella Rose e l’anatroccolo Benoît. «Non starmi tra i piedi» ripete in continuazione la madre. «Non starmi alle calcagna». Génie passa le serate a togliersi con un fiammifero la sporcizia fra le crepe dei talloni. «Lei diceva: “Non ho avuto niente, io”. Io dicevo: “Hai me”». E il dialogo sordo si ripete per tutto il romanzo. Ma nulla basta nell’infelicità della campagna. Sono tre le figure maschili nel romanzo: il nonno (sempre immerso nella lettura di vecchi libri), il patrigno Antoine (prende Génie sotto il suo tetto perché è forte come un uomo e cucina bene) e l’amico Pierre (conosciuto in una stazione di notte). Il mondo rurale è crudele. La natura, senza pietà. Inès Cagnati, figlia di emigrati vicentini partiti fra le due guerre per lavorare la terra nel sud ovest della Francia, è cresciuta in un ambiente contadino, non ha parlato francese finché non è andata a scuola anche se poi è diventata un’insegnante di liceo e una scrittrice riconosciuta. Il suo stile è coinciso, ritmato, ripetitivo. Ama le frasi brevi. Una scrittura bellissima che ricorda Marguerite Duras. «Con la mia testimonianza volevo rendere meno assurde certe vite fatte solo di miseria». In un’intervista, inserita alla fine del libro, l’autrice spiega: «Penso che di infanzie-paradiso non ce ne siano molte. Se l’adulto sogna spesso di rivivere l’infanzia è solo perché a fronte di tutte le sconfitte che ha patito, al bambino si schiudevano tutte le possibilità del futuro. Ma soprattutto perché a quel tempo, la morte non si era ancora manifestata nella sua vita».
Il finale brusco del romanzo lascia senza fiato e toglie la parole. Pessimismo senza ritorno. La società schiaccia chi è più debole e ha bisogno dei matti per sentirsi normale. «Avevo ragione a volerla rinchiudere» dice il padre di Génie dopo che il corpo viene tirato fuori senza vita da una cisterna. «I diseredati sono a tal punto incapaci di vivere, di essere un po’ felici che spesso la società il mondo appaiono loro come una muraglia. - racconta Cagnati -. Ma le mura di un manicomio! Quella è follia catalogata, disciplinata, costrittiva. Fuori da quelle mura sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile» . —
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