Giuseppe O. Longo e i suoi vizi capitali

Accidia, avarizia, gola, invidia, ira, lussuria, superbia. I sette vizi capitali, quelle inclinazioni profonde, morali e comportamentali dell’animo umano, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali, ma comunque in grado di fare a pezzi, una alla volta o tutte insieme, l’anima umana, o il suo cuore, o la mente, o l’intera personalità. Gli “abiti del male”, li chiamava Aristotele, comportamenti o attitudini che, come del resto le virtù, derivano dalla ripetizione di azioni, tali da diventare qualcosa che si indossa appunto come un abito: un abito che alla fine soffoca e distrugge chi lo indossa. Del resto, chi più chi meno, nessuno è al riparo dagli agguati di sette vizi capitali, magari anche per un solo piccolo gesto: cedere alla golosità di un dolce, negare un favore a qualcuno, invidiare il successo di qualcun altro, non fare ciò che si dovrebbe fare, ecc. Insomma, i vizi nient’altro altro sono se non la struttura di ciò che siamo, in una perenne lotta con le virtù. Giuseppe O. Longo, scienziato e scrittore di lungo corso abituato a sondare e rappresentare fragilità e precarietà dell’essere umano, spesso in contrapposizione con una “tecnica” che tali fragilità le esalta invece che difenderle come forse ci piacerebbe, dedica appunto a “I vizi capitali” (Ed. Jouvence, pagg. 208, euro 18,00) la sua ultima raccolta di racconti. Il libro sarà presentato oggi, alle 18, al Kulturni Dom di via Brass 20, a Gorizia. Interverranno con l’autore il critico Fulvio Senardi, il direttore della rivista “Il Ponterosso” Walter Chiereghin, Igor Komel e Antonia Blasina Miseri.
Il volume raccoglie venti racconti variamente suddivisi per i sette vizi capitali (cinque solo per la lussuria, ça va sans dire), alcuni già pubblicati, altri inediti, dove l’autore dà prova una volta di più della sua capacità di giocare su più registri narrativi, da un realismo intimista al surreale, dal tragicomico all’horror al fantascientifico. A partire dal povero Romolo Belci del primo racconto, “Affondare”, personaggio che deve a un’accidia esistenziale il suo lento scivolare nel buio dopo avere tradito la moglie ed essere stato scoperto, dopo essere stato abbandonato dall’amante e infine pure licenziato, alla superbia di Hattusilis, e poi di Batlthasar Altman, e poi di chi verrà dopo, che nell’ultimo racconto “Il simbolo dissimile”, trasmettono l’atto supremo di creare universi a partire dal segreto del piccolo, grande teatro del mondo, i racconti di Longo disegnano nel complesso un caleidoscopio di personaggi e situazioni a volte spiazzanti, altre volte in grado di giocare con i generi e mischiarli in felici combinazioni alchemiche. Come in “Ucci ucci” (gola), rivisitazione alla Hannibal Lecter della favola dell’Orco, o nell’apologo fantascientifico di “Uomomacchina” (superbia). Ma Longo raggiunge esiti felici anche in prove più intimiste come in “Lettera 22” (ira), dove gli equilibri affettivi di una famiglia sono messi alla prova dall’acquisto di una macchina da scrivere da parte di un padre per suo figlio, atto rivelatore di dinamiche sottili che non chiudono l’animo alla speranza. Oppure in “Gildo” (lussuria) racconto che ricorda certe pagine della Munro per quella capacità di indagare le relazioni umane attraverso la lente della vita quotidiana, con uno stile solo a prima vista semplice e lineare. Non mancano afflati da impegno sociale, come ne “Il nome della città” (avarizia), dove una paranoia identitaria spinge ad azioni estreme: «Bisogna dunque vigilare, isolare i forestieri, respingerne la curiosità. Per fortuna in questa città ci conosciamo tutti (...): non è difficile scoprire le spie, fuggirle, allontanarle magari con la forza. Già le due grandi porte sono custodite da guardie armate...».
Se i sette vizi capitali alla fine non sono che il catalogo della nostra non facile collocazione su questo pianeta, Giuseppe O. Longo riesce a scomporre ricomporre i riflessi di questo prisma a più facce, con una a volte funambolica - o acrobatica, per fare il verso al suo libro più famoso, “L’acrobata” - capacità di scrittura, e ancora più con uno sguardo aperto sul nostro stare in questo mondo, o negli altri che l’autore inventa come mirabili macchine teatrali. Uno sguardo ora sornione, ora partecipe, ora pietoso, sui nostri vizi, che, a conti fatti, sono molti più di sette.
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