Herta Müller «Un seme di mela contro la dittatura»

La scrittrice premio Nobel a Milano: «Leggendo ho capito la bruttezza che ci imponeva il regime»
13 Oct 2013, Rhineland, Germany --- The Nobel Prize laureate in literature Herta Mueller at the awarding of the Peace Prize of the German Book Trade in Frankfurt/Main, Germany, 13 October 2013. Photo: ARNE DEDERT --- Image by © Arne Dedert/dpa/Corbis
13 Oct 2013, Rhineland, Germany --- The Nobel Prize laureate in literature Herta Mueller at the awarding of the Peace Prize of the German Book Trade in Frankfurt/Main, Germany, 13 October 2013. Photo: ARNE DEDERT --- Image by © Arne Dedert/dpa/Corbis

di Alessandro Mezzena Lona

inviato a MILANO

Invece di pregare recitava poesie, Herta Müller (nella foto di Arne Dedert/Corbis). Sperava, così, di esorcizzare la paura ogni volta che veniva convocata per un nuovo interrogatorio. Perché in Romania, ai tempi di Ceausescu, la scrittrice che nel 2009 ha vinto il Nobel per la letteratura era considerata un soggetto pericoloso. Figlia di un nazista morto a cinquant'anni per colpa del troppo alcol, fin da quando lavorava in fabbrica era finita nel mirino della Securitate. Avevano provato ad ammorbidirla, chiedendole di collaborare con i servizi segreti. Al suo "no" secco erano scattate le minacce. La chiamavano "cagna", "puttana", l'accusavano di organizzare orge con gli amici.

Quando è arrivata in Germania, molti anni dopo, la situazione non è migliorata affatto. Non la volevano far entrare come rifugiata politica. La accusavano di essere una spia della Securitate mascherata da dissidente. «In fondo - dice oggi - ogni potere crea i suoi colpevoli. L'America, dopo l'11 settembre, ha lasciato che le istituzioni democratiche deragliassero. Permettendo che venisse creato un lager come Guantanamo hanno perso la faccia. E oggi? Assad è senza dubbio un criminale, ma l'Isis che lo combatte non è meglio di lui».

Conosciuta come una scrittrice molto schiva, che non ama pontificare sulla letteratura, Herta Müller ha voluto raccontarsi in una lunghissima conversazione con Angelika Klammer. E per presentare "La mia patria era un seme di mela", il libro-intervista tradotto da Margherita Carbonaro per Feltrinelli, è venuta a Milano, ospite ieri della giornata conclusiva del festival Bookcity.

Vestita di nero, un caschetto di capelli scuri a incorniciare occhi pieni di malinconia, un sorriso timido ma contagioso, disponibilissima a parlare al di là dello stereotipo che la vuole decisamente taciturna e sfuggente, Herta Müller ha rivelato di avere scoperto il potere delle parole e dei libri molto presto. «Leggendo, ho capito che romanzi, poesie, possono aiutare ad aprire gli occhi a chi vive sotto il pugno di ferro di una dittatura. Per esempio, io mi accorgevo di quanta bruttezza ci imponeva il nostro regime. Nel modo di vestire, nel linguaggio, nell'architettura delle città. Tempo fa, mi è capitato di vedere altri Paesi che hanno vissuto a lungo sotto un regime comunista. E mi sono accorta che Slovenia, Bulgaria, Romania conservano intatte forti tracce di quella bruttezza».

Ancora adesso, Herta Müller non smette di collezionare parole. «Ho iniziato molto tempo fa a ritagliarle dai giornali e a ricomporle, poi, per scrivere messaggi sulle cartoline che spedivo. In seguito, quei collage ho iniziato a farli anche a casa, ad appenderli alle pareti. Citazioni di romanzi, versi di poeti. Ho cassetti pieni di parole, perché la letteratura, il linguaggio, sono una vera cura per chi ha vissuto una parte della sua vita sotto l'incubo della paura».

"In viaggio su una gamba sola", "Il paese delle prugne verdi", ma anche "Bassure", "Oggi avrei preferito non incontrarmi", "L'altalena del respiro", sono nati dalla penna della scritt. rice come «un sostegno per non piegare la testa davanti al Potere». Anche perché Herta Müller non ha dimenticato che il livello umano e politico di Ceausescu era davvero infimo. «Non stento a dire che noi lo vedevamo come un mostro. Si cambiava d'abito spessissimo perché era terrorizzato dalle malattie. Faceva chiudere il bagno a chiave, così nessuno poteva toccare l'acqua con cui si lavava. Noi ogni giorno ci chiedevamo: quale sarà il cancro che lo ucciderà, alla gola, ai polmoni? I rumeni dovevano usare la carta di giornale nei gabinetti. Però se sulla pagina c'era una foto del dittatore, erano obbligata a metterla da parte. Guai se finiva dentro il gabinetto anche solo un frammento del suo viso. Il naso, un'orecchia».

Del resto, nascondersi dal regime era impossibile. «La mia casa era piena di cimici. Ci spiavano in continuazione. E noi, giovani in cerca di provocazioni, giocavamo a canticchiare i discorsi del dittatore come fossero partiture musicali. Una volta li intonavamo con il gregoriano, un'altra a ritmo di rock, pop, blues. Forse, qualche volta, siamo riusciti a strappare un sorriso anche agli spioni della Securitate».

Solo adesso Herta Müller può dire ad alta voce che i suoi libri erano una ribellione al terrore imposto da Ceausescu. «Io facevo la guerra al regime senza armi. Con le parole. E non era un caso che avessi scelto proprio quel mezzo per ribellarmi. Volevo far vedere al regime che la volgarità, la rozzezza del loro linguaggio, non poteva uccidere la fantasia e la bellezza».

Moltissimi, invece, si attaccavano alla bottiglia. "Pensavano così di liberarsi dalla depressione, che di anno in anno si faceva sempre più pesante. Del resto, lo stesso regime favoriva la diffusione dell'alcolismo. Sempre meglio avere un esercito di ubriaconi che di gente che ragiona. Mi dicono che in certi stati teocratici come l'Iran si ripete la stessa storia. Le persone bevono per vincere ma paura, la frustrazione, anche in parte per sentirsi vive. All'inizio, è indubbio che l'alcol ti fa sentire euforico e ottimista".

Quando l'inquisitore la mandava a chiamare, però, era difficile ordinare alle gambe di non tremare. «A volte mi accoglieva urlando, a volte con un baciamano che lasciava la sua saliva schifosa sulle dita. Erano rituali studiati per umiliarci. Un giorno, dopo aver sbraitato per un po', mi è venuto incontro con un sorriso enigmatico. Pensavo volesse sferrarmi un pugno. Invece sì è limitato a togliermi un capello dal vestito, con un ghigno di disgusto. Io, allora, sono sbottata: lo rimetta a posto, è mio, gli ho detto. Volevo fargli capire che non avevo ancora perso la dignità. Ma era una sfida inutile, avrebbe potuto schiacciarmi quando voleva».

Anni dopo, Herta Müller ha rivisto il suo inquisitore. Ceausescu era stato giustiziato da tempo, e il commissario politico aveva provato a nascondersi tra la folla. «Mi hanno detto che è morto poco dopo. Aveva fatto ritorno nel Sud della Romania, da dove proveniva. Del resto, tutti gli uomini che dovevano fare il lavoro sporco, gli interrogatori, le persecuzioni, venivano reclutati tra quelli che arrivavano dalla periferia del Paese. Pesavano che avessero meno coinvolgimenti dal momento che non conoscevano nessuno». Neanche con la fine del regime comunista, però, le figure degli spioni sono tramontate. «Almeno il 40 per cento degli uomini reclutati dai servizi segreti - dice la scrittrice - arrivano dai vecchi quadri della Securitate».

Herta Müller non ha tentennamenti nell'affermare che «molti dei documenti che riguardano l'attività della Securitate all'estero sono ancora coperti dal segreto di Stato. E i fascicoli dedicati agli oppositori del regime sono stati purgati. Non si trovano, per esempio, i nomi dei capi inquisitori, ma solo figure minori. Dal mio dossier è sparita la storia di un amico, morto suicida a 28 anni. Alla famiglia hanno negato perfino l'autopsia, per evitare che si scoprissero le vere cause della morte. Cancellando anche il suo nome hanno evitato che qualcuno rivolgesse loro domande ancora più imbarazzanti. Diciamo che il Paese si è dato una patina di trasparenza e democrazia quando ha voluto entrare nell'Europa unita».

Felice per il Nobel assegnato a Svetlana Aleksievic («Non capisco tante polemiche per il fatto che lei racconta la realtà. Ma chi ha detto che la letteratura è soltanto invenzione?») Herta Müller ha voluto utilizzare per il titolo di questo nuovo libro-intervista un verso che le rimbombava dentro, come un mantra di libertà, quando ancora era prigioniera del suo Paese: «La mia patria / era un seme di mela e tra / stella e falce / tu volgi la vela». Un ritmo da canticchiare per farsi beffe del potere. Perché tutto si può imbrigliare con le catene della paura, ma non la fantasia.

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