I lecchini attraverso i secoli da Plutarco ai giorni nostri così è l’arte di saper adulare

la recensione
Lecchini si nasce. Si comincia come cocco della maestra e si finisce chissà dove. Occhio però alla concorrenza, perché il lecchinaggio è un’arte che molti praticano senza vergognarsi troppo. Non ne era immune Marcel Proust, che cercava le entrature giuste per i salotti letterari più influenti e scriveva che l’adulazione, a volte, è solo il traboccare della tenerezza. Lecchino, termine untuoso che rimanda al gesto che prefigura l’abisso in cui può precipitarsi l’agire umano, la rinuncia consapevole e volontaria a ogni residuo di dignità, il baratto di valori e sentimenti in cambio di immeritati privilegi.
Antimo Cesaro in “Breve trattato sul lecchino”(La Nave di Teseo, pagg.107, euro 13,00), cerca di dare una definizione di questo animale composito. La trova in una sintesi tra un pesce, perché sguazza in un elemento fluido, un uccello, perché è senza midollo, e un anfibio, di cui ha l’aspetto viscido ed è capace di grandi balzi in avanti, come un rospo. Del rettile ha poi quel suo fare strisciante, ma chi lo rappresenta meglio è il camaleonte, dalla lingua lunga, retrattile e appiccicosa.
Ruffiani, adulatori, lacché. Un esercito di servitori che ha scritto la storia viscida e bavosa dell’umanità. “Adulatore servile di gonne real, umile lecchino”, così Mario Rapisardi attaccava nientemeno che Giosuè Carducci, cui non perdonava il tradimento degli ideali repubblicani e i versi dedicati a Margherita di Savoia. Magari non sarà stato per questo che Carducci, nominato senatore del regno, fu premiato col Nobel, ma certo farsi sostenitore della politica conservatrice del governo non gli sarà stato nemmeno di ostacolo.
Cesaro, oltre a insegnare filosofia politica all’università, è stato deputato nella scorsa legislatura e chissà che il suo trattato sul lecchino non affondi in quella esperienza. Proprio il contesto sociale odierno così fortemente gerarchizzato, nota Cesaro, fondato sull’apparenza e governato da una ferrea logica utilitaristica, è l’habitat ideale per l’adulatore. Ma il lecchinaggio è una pratica antica quanto l’uomo. Plutarco fu il primo a occuparsene, cimentandosi in un trattato su come distinguere un adulatore da un amico. Condannato senza appello dalla morale cristiana, il lecchino viene collocato da Dante nel XVIII canto dell’Inferno e rappresentato da Alessio Interminelli, che ammette “non ebbi mai la lingua stucca”, cioè asciutta. Dante ci va giù duro e lo presenta con i capelli impiastricciati di escrementi, per averli avuti troppo vicini alle terga dell’adulato di turno. Nel Cinquecento la riprovazione per il lecchinaggio lasciava il posto al suo apprezzamento. Sono anni in cui le corti, da luoghi inaccessibili, diventano centri di mobilità sociale. Per entrarvi bisogna trovare le maniglie giuste. Si stampano manuali che danno utili consigli, come il ’Cortegiano’di Baldassarre Castiglione e nessuno è immune dal vizietto. Nemmeno Machiavelli, che invita il Principe a fuggire ruffiani e lecchini, ma dedica la sua opera più famosa a Lorenzo de Medici per ingraziarselo e avere il via libera per tornare a Firenze. E se Erasmo da Rotterdam pone la lusinga addirittura a fondamento del pactum societatis, nel Settecento il barone d’Holbach scrive un saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani, in cui raccomanda di non avere un’opinione, se non quella del proprio padrone.
Attenzione però al troppo entusiasmo. In cerca dell’ennesima moglie, Enrico VIII mandò il pittore Hans Holbein a fare il ritratto a una delle papabili. Holbein, per compiacere il re, la dipinse in modo tanto accattivante quanto lontano dalla realtà che quando Enrico VIII vide quella che ormai era diventata la sua quarta moglie, prese letteralmente a calci l’incauto pittore. Inconvenienti del mestiere di lecchino, per il quale, come diceva Proust, la franchezza è solo la bava del cattivo umore. —
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