I “Ricordi infausti” di Emilio Stanta, un triestino sul fronte russo della Grande guerra: «Solo una morte repentina ci può liberare dall’orrore»

Un estratto dal memoriale di recente pubblicazione per i tipi dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Un attacco russo sul fronte galiziano in una illustrazione dell’epoca
Un attacco russo sul fronte galiziano in una illustrazione dell’epoca

TRIESTE Di recente pubblicazione è il volume “Ricordi infausti” di Emilio Stanta, uscito per i tipi dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, a cura di Fabio Todero e con la postfazione di Giorgio Coslovich, nipote di Stanta. Si tratta di un caso raro di memoriale di un italiano che abbia combattuto per le armi austro-ungariche sul fronte russo della Grande guerra. Come altri scritti di quel periodo, testimonia l’orrore assoluto del conflitto. Qui un estratto dal volume, il battesimo del fuoco dell’autore.

(…) Avanzando sotto il fuoco e per la prima volta, furono momenti tremendi. Correndo incontro alla trincea nemica io non vedevo più nulla che le gambe del mio compagno Marussich, nel moto della corsa. Mi meravigliava sempre vedere, in quegli attimi, quelle gambe a correre, pensando: ora si fermano, ora si piegano e cadono, poi mi fermerò e cadrò anch’io. La tensione dei nervi faceva sì che ormai eravamo diventati automi e qualunque comando, qualunque ordine sarebbe stato eseguito senza pensare lontanamente di fuggire da quell’inferno, o di ribellarsi. L’orribile scena che si era presentata ai miei occhi, non mi procurò alcun senso di dolore; passai oltre insensibile come se il mio cervello non funzionasse più, compreso soltanto dal fatto che non sentivo più il fischio dei proiettili attorno a me. In tale stato di subcoscienza restai finché giunsi lontano ove la terra era coperta solamente dagli steli del frumento e dalle erbe aromatiche

Era già la sera inoltrata che ci fecero fermare in una radura ove piantammo le tende, in attesa di poter riposare e ricevere il rancio. (...) Nella notte ci svegliarono voci e lamenti di soldati feriti, che venivano trasportati su barelle attraverso il bosco, passando per la radura. Ora mi facevano pena quei feriti dalle bende inzuppate di sangue e le loro fievoli voci gementi. Altri camminavano zoppicando sostenuti da qualche compagno ferito meno gravemente. Tutti facevano compassione, ma questi ultimi anche un po’ d’invidia pensando che dopo guariti sarebbero ritornati alle loro case, sia pure senza un braccio o senza una gamba. Solo quel pensiero passava per la nostra mente in quel momento e non vedevamo altre vie d’uscita che la stessa sorte o la morte repentina che ci avrebbe liberato da cotanto orrore.

Dopo il breve ma cruento bombardamento sopportato nella trincea, a metà collina e il combattimento seguìto nella valle il giorno prima, eravamo diventati tutti taciturni. Nessuno aveva più volontà di dire qualche parola scherzosa, nessuno parlava senza avere avuto necessità. Eravamo divenuti tutti vecchi d’un sol colpo…

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