I sotterranei dell’umanità negli scatti di Ugo Panella tra guerre e donne sfregiate

A Trieste il reporter che da quarant’anni documenta le condizioni di chi vive nelle aree più disagiate del pianeta. «Ora passo il testimone alle nuove generazioni» 

l’intervista



Ha iniziato la propria carriera alla fine degli anni’70, un’epoca d’oro per il fotogiornalismo, e ha continuato imperterrito per la propria strada nonostante quell’era sia ormai tramontata. Da più di quarant’anni Ugo Panella si reca nelle zone più disgraziate del pianeta per dare voce a chi non la ha, per raccontare le storie degli ultimi, dei più deboli, a chi invece è nato nelle aree geografiche più privilegiate di questo nostro mondo. È partito documentando la guerra civile in Nicaragua, ha raccontato la vita negli slums di Nairobi, ha denunciato, insieme a Renata Pisu, la condizione di migliaia di ragazze del Bangladesh sfigurate dall’acido solforico, è tornato più volte in Afghanistan per immortalare la situazione di un paese che dal 1979 a oggi non ha ancora trovato pace. In Sierra Leone ha fotografato le terribili conseguenze del conflitto per controllare le ricche miniere di diamanti del territorio e in Ucraina i bambini nati da madri contaminate dalle radiazioni sprigionate dallo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl. Ora sta lavorando a un reportage per raccontare la realtà dei paesi africani da cui partono la maggior parte dei migranti: è già stato in Mali e a febbraio si recherà in Nigeria. Tante di queste storie Ugo Panella le racconterà personalmente, con l’ausilio delle proprie fotografie, in un doppio appuntamento a Trieste, a ingresso libero, nato dalla volontà di Silvia Palombi, che come editrice di “Charta” ha lavorato insieme a lui per anni, e di Antonio Freni, docente del Deledda-Fabiani: «Gli abbiamo chiesto di tenere un incontro a Trieste, perché siamo convinti che il suo lavoro faccia bene alle persone», spiega Palombi. L’incontro, intitolato “I sotterranei dell’umanità”, sarà rivolto agli studenti delle scuole superiori ma è aperto a chiunque.

«Oggi che non ho più vent’anni è questo l’aspetto del mio lavoro che mi piace di più: testimoniare e passare il testimone alle nuove generazioni – racconta il fotoreporter –. Siamo in un’epoca in cui si tende più a formare che a informare l’opinione pubblica, eppure dalle reazioni dei ragazzi, che durante questi incontri sono sempre molto attenti e puntuali nelle domande, si capisce che sentono l’esigenza di farsi una propria idea di quanto accade. È necessario stimolare lo sviluppo di uno spirito critico anziché aspettare, come diceva De André (in Don Raffaè, ndr), qualcuno che “ti spiega che pensi». D’altra parte quando ha iniziato questo lavoro, racconta il fotoreporter, non l’ha fatto per un amore smodato per la fotografia, ma per la sua passione per la politica estera: «Volevo vedere il mondo con i miei occhi e non farmelo raccontare. Erano gli anni della guerra del Vietnam e avevo capito che la fotografia poteva essere uno strumento espressivo più efficace della parola: la macchina fotografica è stato il mio mezzo per descrivere ciò che vedevo». Non a caso Panella ha scelto di intitolare l’incontro a lui dedicato “I sotterranei dell’umanità”: «Ho cercato sempre di concentrarmi sui luoghi del mondo meno noti, per raccontare un’umanità che ha meno voce di altre: ci sono realtà che devono essere documentate, altrimenti è come se non esistessero». Il suo lavoro è stato anche fonte di frustrazione, perché nonostante i reportage venissero pubblicati in riviste prestigiose presto la gente se ne scordava: «C’è stato un solo lavoro che ha prodotto davvero un effetto rilevante: quello che ho realizzato insieme a Renata Pisu per raccontare le storie delle ragazze del Bangladesh sfigurate dall’acido: dal magazine “D Repubblica” quelle foto hanno fatto il giro del mondo, pubblicate da Time e altre riviste straniere. Ne è nata una sollevazione popolare, tanto che il governo del Bangladesh è stato costretto a introdurre la pena di morte per gli autori di questi crimini, che prima rimanevano puntualmente impuniti. E c’è stata una mobilitazione di medici europei grazie alla quale a quaranta di queste ragazze sfregiate è stato restituito il proprio volto».

Nel corso della sua lunga carriera Panella ha vissuto una serie di mutamenti epocali: è cambiato il mondo del giornalismo e, con l’avvento del digitale, quello della fotografia. «Se un tempo lavoravo principalmente per note riviste cartacee, oggi invece sono le onlus a consentirmi di portare avanti questa professione – spiega il fotoreporter –. Troppi magazine si dedicano ormai quasi esclusivamente al gossip, riservando pochissimo spazio e risorse ai temi che mi stanno a cuore. Le onlus invece hanno la necessità di documentare i propri progetti, per dimostrare come vengono impiegati i fondi dei donatori: oggi sono queste organizzazioni a dare visibilità ai miei lavori, svolgendo il ruolo mediatico che un tempo era della carta stampata». Quanto al digitale, ha reso bulimici gli scatti e disperso, nella proliferazione d’immagini, il valore che un tempo veniva attribuito al fotogiornalismo di qualità. «Con l’analogico si pensava di più e si scattava di meno: riflettere significava mettere in un’immagine tutte le proprie conoscenze sulla situazione che si andava a fotografare. Oggi chiunque si può autodefinire fotografo e siamo bombardati quotidianamente da una mole sterminata d’immagini. Eppure resta sempre valida la massima di Goethe: se uno non sa, non vede». —

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