Il cammino diplomatico che spianò la strada all’inutile strage era cominciato a Sarajevo
Esattamente cent’anni fa si concluse la prima guerra mondiale, la Grande Guerra, l’inutile strage (come la definì il Papa Benedetto XV), che coinvolse decine di paesi europei e non europei, produsse circa dieci milioni di morti, milioni di feriti e mutilati, danni enormi alle città e alle campagne, squilibri sociali, modifiche profonde delle frontiere, movimenti di popolazioni, conflitti diplomatici. La Grande Guerra rappresentò lo scossone più drammatico per la storia dell’Europa, il precedente del successivo secondo conflitto mondiale, che avrebbe quadruplicato le vittime e raso al suolo intere città, lacerando il tessuto civile e morale delle popolazioni. Ma fu, per l’Italia, una guerra vinta, che permise di accogliere, oltre agli altri territori, la città di Trieste, l’Istria e una piccola parte della Dalmazia in seno alla madrepatria italiana.
La Grande Guerra venne scatenata dall’attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914. Come avrebbe scritto un intellettuale austriaco diversi anni dopo, Stefan Zweig, “e poi, il 28 giugno 1914, a Sarajevo, il colpo fu sparato: esso frantumò in un singolo secondo quel mondo di sicurezza e ragione creativa nel quale eravamo stati educati, cresciuti e mantenuti, a casa nostra. Lo frantumò come se fosse stato un vuoto vaso di argilla”. Il meccanismo delle alleanze, pazientemente sviluppatesi nei decenni precedenti, entrò in funzione dopo l’attentato di Sarajevo e durante cinque lunghi anni il continente europeo si trovò immerso in un conflitto senza eguali, che mise a durissima prova la capacità di resistenza delle popolazioni e delle forze armate, i nervi degli ambasciatori e delle istanze politiche. Quale fu, in particolare, il cammino diplomatico che caratterizzò lo sviluppo della Grande Guerra? Come maturò l’enorme partita a scacchi fra le cancellerie dei vari paesi? L’impero russo di Nicola II viveva un periodo particolarmente difficile e delicato. Avviatosi, nella seconda metà del XIX secolo, ad una lenta modernizzazione del paese, in ritardo rispetto agli altri stati europei, la Russia si trovò a dover gestire in modo problematico le incipienti rivendicazioni interne da parte della popolazione, che invocava riforme adeguate per mitigare il carattere assoluto dei poteri dello zar, ed i contrasti internazionali, fra i quali emerse soprattutto il conflitto con il Giappone nel 1904 e 1905. Alleata della Francia dal 1891 e della Gran Bretagna dal 1907, la Russia intravvide nella guerra del 1914 un’opportunità per riscattarsi, per ridurre le tensioni a livello interno e per confermare la propria tradizionale amicizia nei confronti del popolo serbo. La Serbia, condotta dai Karageorgević, dopo aver concluso vittoriosamente le guerre balcaniche, con il Trattato di Pace di Bucarest del 1913, aveva sì recuperato i territori meridionali (fra cui l’importantissima provincia di Kosovo e Metohia) a detrimento dell’Impero Ottomano, ma non aveva risolto i suoi problemi con l’Austria-Ungheria, la quale esercitava una pressione considerevole sulla città di Belgrado (città di confine) e sui cittadini serbi che vivevano in Austria-Ungheria, soprattutto in Bosnia-Erzegovina.
L’Impero Tedesco degli Hohenzollern, proclamato dai tempi del Bismarck dopo le guerre vittoriose della Prussia contro l’Austria (1866) e contro la Francia (1870), aveva intrapreso una “politica mondiale” con l’avvento di Guglielmo II (1888) e, nei primi anni del XX secolo, non nascose le proprie ambizioni anche a livello navale, entrando così in collisione con i piani di supremazia imperiale della Gran Bretagna. La Francia della Terza Repubblica, ansiosa di prendersi una rivincita nei confronti della Germania per riappropriarsi dell’Alsazia e della Lorena, intravvide nella guerra un’opportunità di rivincita per ritrovare anche quel ruolo guida nella diplomazia europea che aveva avuto sia nel Medio Evo, sia con i due imperi napoleonici. L’Impero Ottomano, costretto a subire il declino imposto dalle popolazioni cristiane della penisola balcanica nel corso del XIX e inizio XX secolo, ritenne che una guerra a fianco degli Imperi Centrali (Germania ed Austria-Ungheria) potesse rappresentare un’opportunità per sconfiggere alcuni paesi balcanici (Serbia, Montenegro, Romania) e recuperare almeno alcuni dei territori perduti durante i conflitti precedenti. La Gran Bretagna, uscita all’inizio del XX secolo dallo “splendido isolamento” nel quale la politica vittoriana la aveva relegata, si sentì responsabile del mantenimento dell’equilibrio continentale e ritenne necessario intervenire nel conflitto per limitare la possibile incipiente egemonia tedesca. L’Italia dei Savoia, da ultimo, si trovava in una situazione diplomatica paradossale: malgrado nutrisse, al proprio interno, sentimenti di patriottismo che la portavano a desiderare di includere nei propri confini i territori dell’Austria-Ungheria che erano popolati in prevalenza da italiani (le “terre irredente”: il Trentino, la Venezia-Giulia, l’Istria, il Quarnero e la Dalmazia), firmò, nel 1882, un trattato di alleanza con Germania ed Austria-Ungheria, la cosiddetta Triplice Alleanza.
Prigioniera diplomaticamente della Triplice Alleanza, Roma visse i decenni successivi in crescente imbarazzo. Il paradosso esplose nel 1914. Di fronte alla guerra mondiale, Roma osservò una condotta di iniziale neutralità, fra il 2 agosto 1914 ed il 26 aprile del 1915. In quel periodo l’Italia fu oggetto di attenzione da parte di tutti i paesi coinvolti nel conflitto e ricevette offerte sia da parte dei paesi della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia), sia da parte degli Imperi Centrali (Germania ed Austria-Ungheria). Le offerte dei paesi dell’Intesa, tuttavia, oltrepassarono di gran lunga, per generosità, quelle degli Imperi Centrali. Con la firma degli Accordi Segreti di Londra (26 aprile 1915) Roma ruppe gli indugi: accettò di denunciare il Trattato della Triplice Alleanza ed entrò in guerra a fianco della Triplice Intesa. Se la guerra fosse stata vinta, l’Italia avrebbe ottenuto le “terre irredente”, più la città di Valona in Albania, una zona di influenza nel Levante ottomano e dei compensi coloniali in Africa. La guerra iniziò, per l’Italia, il 24 maggio 1915. Durante cinque lunghi anni gli eserciti, le flotte e le aereonautiche si combatterono accanitamente. A livello terrestre la guerra fu essenzialmente una guerra di trincea. Sia sul fronte franco-tedesco, che sul fronte italo-austroungarico, la guerra procedette per piccoli passi, mietendo centinaia di migliaia di vittime. Per quanto riguardò l’Italia, undici faticose battaglie sull’Isonzo permisero al Regno d’Italia di recuperare pochi chilometri quadrati di territorio e la città di Gorizia, ma non Trento e non Trieste. Nell’aprile e agosto del 1917 l’Italia firmò con Francia, Gran Bretagna e Russia, gli Accordi di San Giovanni di Moriana, mediante i quali vennero fissati i limiti dei territori dell’Impero Ottomano che ciascun paese dell’Intesa avrebbe ottenuto dopo l’eventuale vittoria. Ma quell’anno 1917 sconvolse molti piani. L’entrata in guerra degli Stati Uniti e della Grecia, da una parte, la rivoluzione bolscevica e l’uscita dalla guerra dell’Impero Russo, dall’altra. La battaglia di Caporetto (fine ottobre 1917) permise agli eserciti austro-ungarico e tedesco di avanzare in profondità nel territorio italiano e minacciare seriamente la tenuta del fronte, che venne miracolosamente stabilizzato sul Piave. Tutto sembrò orientare la guerra verso una vittoria da parte degli Imperi Centrali, i quali trasportarono sugli altri fronti, soprattutto francese e italiano, le truppe precedentemente schierate sul fronte russo. Con le offensive di tarda primavera 1918 Vienna e Berlino cercarono di vincere la guerra. Eppure quello fu il momento determinante del conflitto. Sia gli italiani sul Piave, sia i francesi ed inglesi (ed italiani) nello Champagne resistettero ai tentativi di sfondamento da parte delle truppe nemiche, mentre affluivano progressivamente nuove truppe fresche americane sul fronte francese. Quello fu il momento di svolta.
Nel corso dell’estate del 1918 si attese il giorno propizio per il contrattacco, si misurò la debolezza crescente degli eserciti avversari, si moltiplicarono le attività diplomatiche per ipotizzare i nuovi confini sanciti dalla vittoria dell’Intesa. Il Generale Diaz attese fino a fine ottobre per attaccare l’esercito austroungarico. Nell’anniversario della battaglia di Caporetto, il 24 ottobre 1918, le artiglierie italiane iniziarono a colpire sul Monte Grappa. La resistenza nemica fu tenace e perseverante. Dopo aver aperto una breccia sul Piave gli italiani penetrarono nel Veneto orientale e in Friuli, raggiunsero senza trovare grandi resistenze Vittorio Veneto, Pordenone, Udine, Trento. Il 3 novembre 1918, a Villa Giusti, i comandi austroungarici accettarono le condizioni di armistizio poste dall’Italia. L’armistizio sarebbe stato reso noto ufficialmente il 4 novembre 1018, alle ore 15.00. Nelle ore precedenti il cacciatorpediniere Audace, partito da Venezia con un contingente di bersaglieri, raggiunse finalmente Trieste, portò il tricolore che venne issato in Piazza Grande e sulla basilica di San Giusto. Per gli italiani di Trieste fu quello il momento più bello, il conforto per l’animo e per lo spirito. Ciò che da decenni essi avevano atteso invano si realizzava ora, nel momento in cui l’esercito austroungarico si sfaldava e “risaliva in disordine e senza speranza le valli che aveva discese con orgogliosa sicurezza”. Altri avrebbero dovuto poi gestire la pace, i negoziati fra vincitori e vinti, le delimitazioni dei nuovi confini, le clausole militari, politiche ed economiche, le discussioni sui 14 punti di Wilson. Quella sarebbe stata un’altra storia, che non si sovrappose, peraltro, al ricordo dei caduti, della generazione del 1899 e del 1900, chiamata alle armi e che lasciò i propri diciotto anni sulle pietre del Carso e del Piave. Solo cent’anni fa. —
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