Il Dio di Ugo Pierri non va in chiesa ma si fa beffe anche del poeta

Sarebbe facile liquidare la poesia di Ugo Pierri come quella di un poeta anticonformista e poliedrico. Certo lo spirito libero è ciò che lo stesso autore mette da sempre in evidenza, e non solo tramite i suoi versi. Più che libero però, Pierri ha il tipico profilo del personaggio inquieto, colui che per scrivere ha bisogno di un “nemico” e ciò è un bene. In fondo se guardiamo alla migliore letteratura, è sempre stata scritta “contro” qualcosa, non ha importanza se ideologicamente o sentimentalmente, l’artista per sua natura si trova a disagio in società, quando non esprime un vero e proprio biasimo, era Leopardi, forse, che parlava dell’uomo “ridotto in società”. Ugo Pierri tuttavia, nei suoi proclama anti sociali, lievemente anarchici ma non troppo, compie un cammino inverso. Appartiene insomma a quegli autori che amano la collettività a tal punto da denunciarne i difetti, ma con il proposito di una eventuale ribellione costruttiva, non distruttiva. Che Pierri sia un diavolo lo pensa solo chi si ferma a una lettura epidermica, il poeta che scrive contro i preti o contro il Comune, di fatto è abitato da una frontalità che non concede tregue, né a preti né a politici o a veri e presunti intellettuali. Insomma nel mirino di Pierri ci sono dentro tutti, dal suo osservatorio di San Giacomo osserva, pensa e decide come rimandare una eco che riverberi sopra la città. Il punto è, ed è un punto fondamentale, che più che altrove in questa ultima raccolta in versi, nel mirino infila anche se stesso. Lo dice bene Vittorio Cozzoli nella postfazione di “Dio esiste. Ma non va in chiesa” (Battello Stampatore, pag. 69, euro 12).
«Quella che qui leggiamo è, tra le possibili, la più onesta biografia di Ugo Pierri», scrive Cozzoli «rigorosa in primis verso se stesso». Ed effettivamente il nostro acuto pittore inediale, niciano, anarco-comunista, prosatore serio e umorista, si fa beffe di tutti e di se stesso in primo luogo, con un umorismo da cui trapela una vena amara, ma tenendo sempre il punto di chi, alla fine, vorrebbe suggerire una vita migliore, più aderente a quel cristianesimo che apparentemente bistratta. Lo stile è sempre quello dettato da una personalissima voce che elabora a suo modo scapigliati e crepuscolari, ma il ritmo è naturalmente più moderno. Viene in mente, per certi aspetti, la satira poetica di Ernesto Ragazzoni e le sue contestazioni nei confronti del “borghesume”. I preti e i loro santi contesti sono al centro della polemica, quella formazione cattolica che tutti ci riguarda, anche chi si illude di non averla subita, insomma quell’educazione che abita l’anticamera della carità dove “pietose dame servono/il tè e piccole tartine/indossano abiti severi/volti di cera/e un tenero rossore missionario”. Ma l’amore, lo sappiamo, sta sempre da un’altra parte e in genere è perseguitato. Un verso usa Pierri per due volte, “la pienezza di cuore”, la necessità di aderire alla vita, con tutte le croci che ciò comporta. Ma è un’altra la confessione e ha a che fare con la vanità e la presunzione del suo cuore, ammissione quasi dantesca, ma potremmo dire, cambiando genere, una confessione pure alla Foster Wallace, era lui che scriveva come si diventi degli autori migliori quando si scrive ciò che non si vorrebbe, i più imbarazzati autoritratti. E Pierri risponde: “Sono un uomo debole/indurito da grame frustrazioni/bisognoso di essere amato”. E così questo “rabbi senza fissa dimora”, che si ostina a tracciare nella polvere messaggi ostinati, diventa tutti noi. Il cuore della questione pare stare proprio lì. Perché forse, se una colpa c’è nella vituperata formazione da preti, è quel dettato di fare il bene perché sta bene, senza mai approfondirne i risvolti narcisistici. E quanto, per la difesa degli oppressi o della giustizia, la comunità potrebbe fare un passo avanti rispetto all’anticamera della carità, se un po’ ragionasse alla Pierri che saluta ammettendo: “a natale sono tutti più buoni/io no”. —
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