Il fantasma dei Romanov da Anastasia a Vladimir Putin

«Può, Vladimir Putin, venir chiamato “zar”? Sì, nel linguaggio politico e giornalistico. Ma, in realtà, si tratta di un uomo politico moderno, di un modernizzatore consapevole del fatto che la Russia ha bisogno di una grande autorità al vertice, ma anche di una democrazia che ancora non è stata interamente assorbita. Quindi no, non chiamerò mai Putin zar». Così Sergio Romano al termine di un incontro di èStoria, ieri alla Tenda Erodoto, che ha preso le mosse più da lontano: al centro dell’appuntamento, infatti, c’erano i Romanov e il già ambasciatore d’Italia a Mosca ne ha parlato con il giornalista e scrittore Jean Des Cars.
Altra vicenda complicata quella della dinastia dei Romanov, che ha tirato in ballo figure come quelle di Pietro il Grande, di Nicola II, di Rasputin, e immancabilmente, di Anastasia, sul quale De Cars si è soffermato raccontando la storia di una polacca che, in seguito a un tentativo di suicidio, nel 1920, a Berlino, cominciò ad affermare di essere lei: morì quasi novantenne nell’84 e i test sul Dna esclusero qualsiasi parentela con i Romanov.
Ma per quali motivi i componenti della dinastia vennero massacrati? Sergio Romano ha tentato di fornire una risposta: «Sul massacro non tutti erano d’accordo nel partito bolscevico. Trockij non voleva la morte di Nicola II e della sua famiglia: desiderava, come nella rivoluzione francese, che il re fosse sottoposto a un processo. Prevalse Lenin, secondo il quale se si voleva distruggere l’impero zarista non si poteva non cominciare dalla famiglia imperiale e dal clero». «Come venne realizzato il massacro, tuttavia - ha aggiunto Romano -, non ha nulla a che vedere, credo, con lo stile di Lenin: fu opera soprattutto di gente locale e in particolare di Sverdlov che a lungo godette nella Russia sovietica di una certa reputazione al punto che la città più vicina al luogo del massacro, Ekaterinburg, si chiamò a lungo Sverdlovsk». —
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