Il lungo 1953 di Trieste, un tema “esotico” sul confine orientale

TRIESTE Una grande crisi è la somma di tante piccole crisi. Quella tra Italia e Jugoslavia si aggrava a metà del 1953, quando l’instabile governo di Alcide De Gasperi decide di assumere misure radicali riguardanti la questione di Trieste. Un’area cruciale e l’apice di tensioni accumulatesi nel corso degli anni, dove il contenzioso italo-jugoslavo segna l’inizio della Guerra Fredda, o se vogliamo la linea di chiusura denominata Cortina di ferro, che contrapporrà due grandi ideologie politico-economiche: la democrazia-capitalista e il totalitarismo-comunista.
La principale virtù della dettagliatissima monografia di Bojan Dimitrijević “La crisi di Trieste-1953” (Leg, pagg. 213, euro 18), dal 3 marzo in libreria, sta nello sforzo di ripercorrere nella maniera quanto più equilibrato possibile le tappe nel periodo compreso tra il 1945 e il 1954, sulla disputa concernente la questione della città e dei territori circostanti, abitati da popolazioni italiane e slave-meridionali. L’unico sorriso che balugina, tra lo sfilare nelle pagine di tank e divisioni partigiane, in chiusura del volume, è quando lo studioso, già consulente dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri del Presidente della Serbia negli anni 2003-9, tra gli altri, ringrazia la prestigiosa Europe@War inglese, per aver accettato di pubblicare nella sua collana questo libro di storia militare “dal tema esotico”.
Evidentemente si riferisce all’esotismo con il quale finiscono per essere derubricate dolorose controversie, apparentemente locali, all’interno di sanguinosi sommovimenti, come la seconda Guerra Mondiale, che hanno squassato un continente. Contrapposizione militare, politica e ideologica conclusasi solo nel 1991 con l’ammaina bandiera rossa sul Cremlino. Ma appunto, prima di addivenire a un nuovo disegno che troverà solo un domani sintesi chiara nei manuali di storia a uso delle scuole, vanno uniti, e Dimirtijevic lo fa, tutti i puntini intermedi. L’autore riferisce come puntano l’indice contro il pericolo comunista De Gasperi e poi Giuseppe Pella che gli succede, sempre nel 53, paventando il miglioramento delle relazioni tra Nato e la preziosa, per posizione, Jugoslavia, in quegli anni avvenuta a singhiozzi e a passi di gambero, a spese di Trieste. Il Trattato di pace aveva stabilito la creazione del Territorio Libero di Trieste diviso provvisoriamente in due zone: la A (Duino, Aurisina, Trieste, Muggia) amministrata dagli angloamericani; la B (Capodistria, Pirano, Isola, Umago, Buie e Cittanova) amministrata dagli jugoslavi. E mentre Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna nel ’48 avevano sottoscritto una Dichiarazione tripartita in cui auspicavano la restituzione integrale del Territorio libero di Trieste all’Italia, il presidente Tito si accingeva a tenere un importante comizio a Okrogliga, a ridosso del confine, per riaffermare i diritti della Jugoslavia sul territorio di Trieste e la fine nel suo atteggiamento “morbido e tollerante”, il tutto in occasione del decimo anniversario della costituzione delle brigate jugoslave in Venezia Giulia. Nell’aria una nuova serie di negoziati con Washington, facendo leva sulla sua posizione strategica, di “cuscinetto”, unica in quel momento, contro ogni possibile aggressione sovietica.
Dimitrijevi„, che oltre alla storia conosce bene i posti, avendo anche prestato servizio di leva in un’unità dell’Esercito jugoslavo nella regione di Trieste, esegue un’analisi puntigliosa, decisamente per addetti ai lavori, espungendo rivalità etniche e diatribe politiche, per focalizzarsi principalmente sulle dinamiche militari che modellano il periodo che va dal 1945-54. Riferisce dell’entusiasmo e motivazione delle truppe di Tito nel corso delle avanzate, dalle Alpi Giulie fino all’Istria, in cui convivono italiani e slavi. A grosse spanne gli italiani in città, gli slavi nelle campagne. E dei giochi politici di Tito nella corsa per inglobarsi Trieste, a costo di lasciare nel ’45 alcune sezioni di territorio sloveno e croato in mano tedesca. E nel ’53, quando gli Alleati decisero di devolvere l’autorità sulla zona A all’Italia, la sua pronta mobilitazione di truppe verso il confine. Fu la più grave reazione militare da parte della Jugoslavia in tutta la Guerra Fredda, fu il primo caso di confronto militare diretto Est-Ovest.
Appunto. Quando la crisi di Trieste giunge al termine con il Memorandum di Londra del 1954, sancito infine dal Trattato di Osimo del 1975 che attribuisce la vasta zona B all’amministrazione della Jugoslavia, i tentativi occidentali di includerla nel quadro della Nato scemano, anche se continuerà a ricevere armi ed equipaggiamenti all’avanguardia, mai negatigli dagli Usa nemmeno in occasione di sanguinose scaramucce.
Per felice coincidenza l’indisciplinato Tito non deve più guardarsi alle spalle da Stalin, da cui si era del resto affrancato da tempo, morto nel marzo del ’53. A casa sua godeva dell’immenso prestigio di essere a capo dell’unico Paese europeo comunista riuscito a liberarsi senza l’intervento dell’Armata Rossa e poteva infischiarsene di essere stato accusato di deviazionismo, spia al soldo dell’Occidente e corollario affine. Anzi, morto Stalin, l’Unione Sovietica, ristabilite le piene relazioni politiche e diplomatiche, riconobbe implicitamente l’esistenza di vie alternative e meno ortodosse al socialismo.
Per parte loro gli Alleati avevano sempre percepito i partigiani come una banda di irregolari che avevano fornito un contributo utile però marginale alla fine della guerra, e trovato supponente l’atteggiamento di voler sedere allo stesso tavolo dei grandi della Terra (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica). Adesso che la piccola crisi era rientrata, con l’impegno, di Italia e Jugoslavia, a non sostenere più nessuna rivendicazione territoriale in quest’area, i grandi della Terra potevano passare a quella grande. —
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