Il rapper Tredici Pietro si lancia con Assurdo «Difficile essere figlio di Gianni Morandi»

Non si è fatto mandare da papà a prendere il latte e nemmeno si è fatto dare un aiutino. In verità, quando ha iniziato a fare rap, a suo padre neanche l’ha detto. Tredici Pietro, che in realtà si chiama Pietro Morandi (tredici si riferisce al numero dei suoi amici storici), si è fatto strada da solo. Si è lanciato nella giungla della musica con coraggio catturando subito l’attenzione, non solo per il cognome: pezzi come Pizza e fichi, Piccolo Pietro, Rick e Morty, in poco tempo hanno collezionato milioni di clic in rete. E una hit dopo l’altra, Tredici Pietro – 22 anni – è arrivato a pubblicare il suo primo disco, “Assurdo”: sette tracce, più mature delle precedenti e musicalmente fresche, che per il piccolo di casa Morandi significano un passo avanti nella conquista di quella credibilità che per la scena è fondamentale.
Le hanno dato del raccomandato molte volte?
«In faccia mai - risponde Tredici Pietro -, online sì. La gente si sfoga dietro a un nickname. Non potendo criticare la qualità della musica, mi screditano dicendo che ho ottenuto visibilità grazie a mio padre. Chiamarsi Morandi catalizza l’attenzione, ma è più difficile piacere al pubblico».
Con “Assurdo” ha cercato di portare un suono nuovo?
«Sì, quando lo sento non lo associo a nulla di quello che c’è in giro. Ci sono riferimenti al passato, ma rivisitati».
È molto lontano dal classico immaginario del rapper: è dura conquistare credibilità?
«Non posso parlare della strada o del quartiere, per ovvie ragioni. E sapevo che diventare credibile avrebbe richiesto più tempo. Ed è assurdo che ci stia riuscendo così velocemente».
Anche i commenti ai suoi video sono cambiati in fretta: gli hater sono sempre meno.
«Da una parte sono contento, dall’altra però un po’ di odio fa sempre bene. Serve come stimolo e genera attenzione».
Il suo primo ricordo musicale?
«Risale a quando avevo cinque anni. Ero a un concerto di mio padre e avevo una chitarra di plastica. Imitavo il chitarrista perché mi faceva impazzire e non riuscivo a smettere di guardarlo».
C’è un artista che l’ha spinta a fare rap?
«YG, è un rapper di Los Angeles. Sei anni fa quando ho ascoltato il suo disco, My Krazy Life, ho pensato: ecco questo è quello che voglio fare».
Ha scritto che essere figlio d’arte è un orgoglio e un fardello, perché?
«Sono orgoglioso di essere il figlio di un artista così celebre. E sono fiero di mio padre come persona, è un bravo genitore. Ma come insegnano i molti libri sul complesso di Edipo è anche un fardello. Le sue canzoni sono entrate nelle case di tutti gli italiani e se vuoi affermarti nel mondo della musica non è facile convivere con questa realtà. C’è il rischio di crollare mentalmente, come è successo ad altri figli di personaggi famosi».
Anche con le amicizie è complesso?
«Bisogna cercare le persone giuste, quelle che non ti frequentano solo per interesse ma che vogliono veramente esserti amico. Certo non è un dramma, ma ci sono varie complicazioni nell’avere un papà così celebre».
Perché non hai mai voluto fare una cover in chiave rap di una hit di suo padre?
«Perché voglio avere una carriera lunga. Magari un giorno, chissà, potremmo fare una canzone insieme».
Suo padre è attento alle novità musicali?
«Molto, quando ha sentito Ghali gli è piaciuto subito».
Gli fa ascoltare le canzoni prima di lanciarle?
«No, le ascolta una volta uscite. Abbiamo sempre avuto un rapporto complicato e mi imbarazza fargli sentire i pezzi. Però lui ci tiene alla mia musica, mi segue e poi mi fa le sue recensioni, che sono molto azzeccate».
In una strofa dice che vuole scappare a Londra, come mai?
«In Italia, almeno a prima vista, le possibilità sono meno. Perciò i giovani che tra quindici anni dovrebbero prendere le redini del paese sono più portati a fuggire che a restare. Anch’io punto ad andarmene. Finché riuscirò a fare musica rimarrò qui, ovviamente, ma in futuro quando sarà il mio turno di investire in un’attività andrò altrove».
Ora qual è il suo obiettivo?
«Mi auguro di consolidare la mia musica all’interno della scena. Lavoro sodo per fare un ulteriore salto. Insomma, è ora di smettere di giocare. Voglio che tutti mi prendano sul serio». –
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