«Io, Lorenzo Mattotti disegno in libertà e sogno Dino Buzzati»

A Villa Manin la mostra “Sconfini” ripercorre la carriera dell’autore che prepara l’«Invasione degli orsi in Sicilia»

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Lorenzo Mattotti non ha mai accettato di chiudersi in un mondo dai confini definiti. Quando inventa una storia, si muove in un altrove dove usa il segno del fumetto e la libertà della pittura, i colori del sogno e le ombre inquiete degli incubi. Così, può inventare graphic novel fuori dagli schemi come “L’uomo alla finestra”, “Doctor Nefasto” e “Fuochi”, o ricreare il “Pinocchio” di Carlo Collodi”. Scendere nelle tenebre di “Jekyll e Hyde”, confrontarsi con gli spaventi di “Hänsel und Gretel”, firmare illustrazioni bellissime per il “New Yorker”, “Le Monde, “Le Nouvel Observateur”.

Per mettere a fuoco una carriera così importante, che lo ha visto collaborare con mostri sacri come Lou Reed e Michelangelo Antonioni, Villa Manin ha voluto dedicare all’autore bresciano di origine, che vive a Parigi, una grande mostra. Il cui titolo non poteva non essere “Sconfini”. L’esposizione, che resterà aperta fino al 19 marzo a Passariano (da martedì a domenica dalle 10 alle 19), è curata da David Rosenberg e riprende la grande esposizione allestita in Francia dal Fondo Hélène & Édouard Leclerc. Con una selezione di una cinquantina di opere in più scelte da Giovanna Durì.

Viaggiando tra le opere di Mattotti, la mostra tenta di mettere ordine in una produzione magmatica e vastissima. Portando in primo piano la magia e la luce oscura, le discese negli abissi della psiche e i viaggi, l’amore e la violenza, la forza del colore e lo studio dei corpi, che a partire dagli anni Settanta hanno dato forza a opere straordinarie come “Caboto”, “Spartaco”, “The raven” e decine di altri progetti. Senza dimenticare le incursioni nel cinema.

«Da una parte mi sono preso grandi libertà - spiega Lorenzo Mattotti - perchè ho sempre forzato i confini del mio lavoro. Dall’altra, un po’ ho scontato questo mio voler superare tutte le frontiere, perché non mi hanno mai identificato in maniera precisa. Per le accademie di fumetti io sono un illustratore, per gli illustratori sono un pittore, e per i pittori sono un disegnatore».

Però si è creato un continente immaginario?

«Assolutamente sì. Ho potuto lavorare in una sorta di terra di nessuno. Dove essere, di volta in volta, disegnatore, illustratore, pittore, senza mai dovermi limitare».

Mettersi in mostra è anche un modo per trarre un bilancio?

«Sì, anche se questo viaggio nel mio lavoro è soggettivo, non esaustivo. Mancano molte cose, che potrebbero riempire un’altra mostra. Questa volta abbiamo cercato di creare un itinerario coerente e complesso, che scivola tra i territori immaginari da me esplorati».

Lasciando fuori poche cose?

«Mancano, è vero, soprattutto le illustrazioni per l’infanzia. Ma c’è comunque tanto».

Avete aggiunto alcune cose rispetto alla mostra francese?

«Molti quadri, molto più “Oltremai”. Insomma, una cinquantina di pezzi in più».

Lei è partito disegnando storie...

«Ed è stato importante. Perché ho potuto attingere molto dal mondo della sottocultura. Rubando un lingua. ggio ricchissimo come quello del fumetto. Su quella base si è inserito il mio grande interesse per la pittura, per l’illustrazione e per il cinema. Allargando gli orizzonti».

E permettendole di percorrere una strada tutta sua...

«Sì, perché adesso uno che guarda i miei lavori non sa più come definirli. Non sono solo fumetti, oppure quadri, o illustrazioni. Per esempio in “Hänsel e Gretel” i linguaggi si mischiano. La fiaba diventa incubo, ricerca stilistica, esplosione di bianco e nero».

E spesso dal colore, dalle ombre, nascono le storie.

«Il colore è sempre stato per me un punto di forza in più. Anche perché, di solito, il fumetto lo usa per descrivere, per definire dettagli precisi. Io invece, ma non solo io, ho iniziato a usarlo come elemento portante della narrazione.

Linea chiara contro immaginario epressionista?

«Per dirla in termini molto semplici: da una parte c’è Tintin, la scuola belga, la linea chiara che racconta con precisione. Dall’altra, una visionarietà che esplode con forza emoriva nei lavori, per esempio, di un autore come l’argentino Enrique Breccia».

Com’è stato lavorare con Lou Reed?

«Davvero forte. È durata circa un anno, ci siamo parlati molto attraverso e-mail e messaggi, ma anche incontrandoci di persona. Grazie a lui ho aperto una porta che, dopo “Jekyll e Hyde”, tenevo un po’ socchiusa».

Come si siete incontrati?

«Un giorno ho ricevuto una telefonata. Era Lou Reed che mi diceva di avere apprezzato molto il mio “Jekyll”. E voleva sapere se ero disposto a lavorare con lui su una storia tratta da “The raven” di Edgar Allan Poe. Accettare questa sfida mi ha dato la possibilità di scendere nel pozzo dell’oscurità. Guardando negli occhi anche i miei mostri. Mi sono arricchito non solo come artista, ma anche come perrsona.

Difficile?

«Molto stressante. Lou Reed era un grande poeta. Pieno di emozioni e di nevrosi».

E Michelangelo Antonioni?

«L’ho incontrato soltanto una volta. Lui era già molto malato, non parlava più. Ma dagli occhi e dal sorriso traspariva una vitalità e una carica umana fortissime. È stato lui a propormi di lavorare al film “Eros” e io mi sono emozionato davvero. E poi è stato bello, perché mi hanno lasciato lavorare in maniera liberissima».

Che cosa le avevano chiesto?

«Il film racchiude tre mediometraggi diretti da Wong Kar-wai, Steven Soderbergh e da Antonioni stesso. L’hanno proiettato ai festival di Venezia e Toronto del 2004. In pratica, mi hanno chiesto di creare un legame tra le tre opere che regalasse una coerenza estetica al progetto. Io ho realizzato l’introduzione ai tre episodi, sperimentando in studio diverse tecniche video per filmare i miei disegni».

Le hanno dato una fiducia enorme...

«Una fiducia totale. Ed è stato molto bello poter lavorare sotto gli occhi di tre registi così bravi».

Giovanna Durì è il suo legame forte con il Friuli Venezia Giulia?

«Vive a Udine, dove ho abitato anch’io per un po’, e conosce bene il mio lavoro. È una persona di cui mi fido totalmente. Grazie a lei ho potuto fare “Linea fragile”, il volume pubblicato dalle edizioni Nuages, su cui avevo tanti dubbi e in realtà è venuto molto bene. Così, quando Villa Manin mi ha chiamato per proporre la mostra, ho lasciato a lei la responsabilità di arricchirla e di seguire l’allestimento».

Sta lavorando a un progetto importantissimo?

«Non vorrei parlarne adesso. Perché uscirà tra due o tre anni, se va bene. Comunque si tratta del progetto di trasformare in un film a cartoni animati lo splendido libro di Dino Buzzati “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”».

A che punto siete?

«Ci stiamo lavorando da tre anni. Stiamo finendo la preparazione per poi entrare in produzione. Ci serve un po’ di fortuna: nel cinema è tutto molto difficile. Per il momento, gran parte dei finanziamenti arrivano dalla Francia, pochi dall’Italia. Mi sarebbe piaciuto che partecipasse anche il Friuli Venezia Giuliua. Ma io continuo a sperare».

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