Joan Collins per la prima volta senza veli a Trieste cinquant’anni fa ne “L’amore breve”

Paolo Lughi
Cinquant’anni fa, alla prima Mostra del Cinema di Venezia post-sessantotto, fu presentato nella sezione “Tendenze del cinema italiano” un film girato a Trieste per dieci settimane nella primavera precedente e che conobbe tempestose vicende produttive Si trattava de “Lo stato d’assedio”, diretto da un regista di origine fiumana, Romano Scavolini, considerato oggi la personalità più originale emersa in Italia negli anni a cavallo della contestazione, già autore di due lungometraggi recentemente riscoperti, “A mosca cieca” (1966) e “La prova generale” (1967.
Interpretato da una trentaseienne Joan Collins e da un diciannovenne Mathieu Carrière agli esordi, “Lo stato d’assedio” è sceneggiato da Gianfranco Calligarich, scrittore triestino, due anni fa vincitore del Premio Viareggio per “La malinconia dei Crusich”. Il film “ruota intorno a una breve stagione d’amore fra il rampollo di una famiglia alto-borghese triestina (Carrière) e una donna molto più matura (Collins), che ritorna in città dopo un matrimonio fallito”, spiega oggi Romano Scavolini.
Perché la scelta di ambientare il film a Trieste?
«Il soggetto era già ambientato a Trieste. Proprio il carattere multiculturale della città, la sua realtà ricca di componenti diverse, anche di contrasti, era ciò che la rendeva adatta a rappresentare lo sfondo, per certi aspetti impietoso ed emblematico, del fallimento di quella famiglia alto-borghese parallelamente alla decadenza della città. Quando Calligarich mi fece leggere il soggetto, capii subito che la vicenda conteneva tutto il materiale che in quel momento storico (il ’68 e le lotte operaie e studentesche in tutta Europa, senza dimenticare le ferite create nel cuore delle giovani generazioni dalla guerra del Vietnam), mi avrebbe permesso di realizzare un film di un certo spessore. Il titolo stesso, ‘Lo stato d’assedio’ (che avevo imposto alla produzione, che poi lo cambiò unilateralmente in ‘L’amore breve’ per ragioni puramente commerciali) abbracciava e sintetizzava le contraddizioni presenti nella vita dei vari protagonisti, che si trovavano ‘assediati’ da una realtà interna ed esterna che non erano stati in grado di prevedere».
Come si è svolta la collaborazione con Calligarich?
«Con lui abbiamo fatto molti sopralluoghi a Trieste per mettere a fuoco gli ambienti, le ville, le strade, gli esterni, il Porto, che all’epoca era in piena crisi imprenditoriale. Il film si apre proprio con un notiziario alla radio, che racconta le dimostrazioni di piazza di migliaia di lavoratori e la cecità dei vertici dell’allora Cipe, incapaci di fermare il declino di una parte importante dell’economia triestina. Oggi sono passati 50 anni, e pochi ricordano i tempi in cui le lotte dei portuali di allora richiamavano l’attenzione sull’economia dell’intera città, che però finirono sconfitte».
Come sono nate le scelte della Collins e di Carrière?
«Il primo protagonista che ho scelto, e su cui ho dovuto lottare con la produzione, è stato Carrière, che avevo visto ne “I turbamenti del giovane Törless” di Volker Schlöndorff. Le altre caselle del cast sarebbero arrivate, ma solo tenendo sempre al centro un attore come lui. La produzione mi fece il nome di Joan Collins, che non aveva partecipato per anni a film di un certo rilievo. Accettai solo se la Collins avesse rinunciato al tipico trucco hollywoodiano che le aveva reso il volto più simile a un vaso cinese, che non a un’attrice con un’anima mortale!».
Come furono i rapporti sul set con Joan Collins?
«La Collins si è sempre dimostrata un’attrice di grande esperienza e professionalità. Ma soprattutto umile, puntuale, generosa, aperta, disponibile a battere anche 14 ciak! Dopo un lungo monologo di cui battemmo appunto 14 ciak, ebbe il coraggio di dirmi: ‘Romano, io non sono quella grande attrice di cui tu hai bisogno’… e decidemmo di finire la scena lì. Ma non è vero che non fosse una grande attrice. Era perfettamente cosciente del fatto che oltre una certa tensione emotiva, lei non era in grado di offrirmi niente di più di ciò che aveva dato».
Ricorda la presentazione del film a Venezia?
«Durante il Festival ero in America latina impegnato in un documentario sulla tortura politica e lo sfruttamento dei minatori in Bolivia. Quindi niente passerelle, né interviste. Non me ne poteva fregare di meno. La ragione era semplice: il film (sia il montaggio, sia la parte dei dialoghi) era stato fortemente manipolato dal produttore con la complicità del montatore durante la mia assenza. Quando Joan Collins venne a Roma per doppiarsi in inglese, inorridita dalle scene che doveva recitare, mi chiamò arrabbiatissima perché le battute non corrispondevano al suo labiale originale. Mi chiese allibita cosa fosse successo. Glielo spiegai».
Quale importanza riveste per lei questo film?
«Sinceramente è un film che considero zero nella mia filmografia, perché, come ho cercato di spiegare, non corrisponde affatto a ciò che volevo. Ma non è l’unico mio film da cui mi sono dissociato. Nonostante tutto ciò vada contro me stesso, la mia vanità, il mio amor proprio, il mio orgoglio. So per certo che il film ha raccolto molti consensi, ma nessuna “impressione critica più o meno bendisposta’ potrà resuscitarlo dalle ombre che lo ricoprono». —
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