La banalità del male irrompe alla Mostra con la violenza di “The Painted Bird”

La banalità del male, l’orrore anche nelle sue forme più crude e cruente, senza mezze misure e anzi esibito con un certo sadico compiacimento. Una scelta che fa discutere quella di inserire in concorso alla 76.a Mostra del Cinema di Venezia “The Painted Bird”, terzo lungometraggio del regista ceco Václav Marhoul, accolto ieri tra i fischi e gli applausi, e non senza fughe dalla sala. Percosse, torture, sevizie, persecuzioni di ogni genere. Il film, ambientato durante la Seconda Guerra mondiale e tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski, racconta l’infanzia di Joska, ragazzino ebreo dagli occhioni grandi e neri affidato dai genitori a una vecchia zia per sottrarlo agli orrori dei lager. Alla morte della anziana e bruciata la casa in campagna nell’Europa orientale, il piccolo (Petr Kotlár) è costretto a vagare da solo in un mondo abietto, abbruttito dalla miseria e dalla crudeltà, condannato a un crescendo di terribili atrocità, umiliato e offeso da chiunque si trovi a incrociare il suo cammino. Costantemente esposto alla violenza e alla morte, sodomizzato, esposto all’aggressione di uno stormo di corvi, abusato da una pastora ninfomane e poi rifiutato in favore di un caprone. Legato, picchiato, frustato, fino all’incontro con ufficiali dell’esercito nazista e stalinista. Quasi tre ore che procedono per accumulo in un bianco e nero che fa il verso a Bela Tarr, all’interno delle quali trovano si inseriscono i cameo di attori noti come Udo Kier, Stellan Skarsgård, Harvey Keitel, Julian Sands, Barry Pepper. «Sono undici anni che lavoro a questo libro che mi ha subito molto toccato e così ho deciso di farne un film perché credo sia una storia universale – afferma il regista –. Ci sono tanti bambini abbandonati nel mondo che agiscono proprio come accade nel film». La violenza? «È solo la cornice del dipinto dove al centro c’è la vita del protagonista. Il film poi ha un buon finale perché passa il principio che la luce è visibile solo al buio».
Non è meno tragica l’umanità descritta da Roy Andersson, anche lui in gara a Venezia cinque anni dopo aver conquistato il Leone d’Oro con “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”. Il regista svedese riflette ancora, stavolta sull’infinito. Il nuovo lungometraggio “About Endlessness”, ispirato a Milos Forman e Jiri Menzel, è descritta dall’autore come una «riflessione sulla vita umana in tutta la sua bellezza e crudeltà, splendore e banalità». La cifra stilistica non si discosta da quella dei precedenti lavori di Andersson: quadri fissi, colori lividi, impianto situazionista e minimalista. Una voce fuori capo introduce una lunga serie di piccole scene che colgono momenti insignificanti: come quella di un sacerdote che nutre dubbi sull’esistenza di Dio e cerca aiuto in uno psicologo ossessionato dall’idea di perdere il bus, un gruppo di giovani che si fermano a ballare all’esterno di un bar, un uomo che diffidando delle banche nasconde i suoi soldi nel materasso, un esercito sconfitto che marcia verso un campo di prigionia. «È stato il mito greco a ispirarmi a unire tutte queste scene – afferma Andersson –, tutti questi temi in uno stesso film. Io voglio sottolineare la bellezza di essere vivi e umani, ma per dimostrarlo ci vuole un contrasto, bisogna rivelare anche il lato peggiore. Questo film è sull’infinità dei segni dell’esistenza».
E alla lista dei flop, nella giornata più debole del concorso, si aggiunge anche il sopravvalutato Atom Egoyan, che a quattro anni da “Remember” ci riprova con “Guest of Honour” un thriller familiare che indaga nel passato nascosto di un padre e una figlia. —
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